Elusione Fiscale ed Armamenti
Elusione fiscale ed armamenti
Quando si ricomincia a giocare con la corsa agli armamenti, è un brutto segno.
Borse d’Italia in picchiata, tagli draconiani a istruzione, sanità, pensioni e
stipendi, ma intanto crescono a dismisura e segretamente le spese per l’acquisto
di nuovi sistemi di guerra da destinare alle forze armate italiane. Gli ultimi
gioielli di morte vengono dagli Stati Uniti d’America: due velivoli senza pilota
UAV Predator, nella versione B “MQ-9 Reaper” per il bombardamento teleguidato
contro obiettivi terrestri.
Il Dipartimento della difesa USA ha rivelato da un contratto, per un valore di
15 milioni di dollari, che è stato sottoscritto dall’Aeronautica Militare
italiana e prevede pure la fornitura di tre radar LYNX Block 30 e un motore di
ricambio. L’acquisizione rientra all’interno del cosiddetto Foreign Military
Sales (FMS), il programma per la vendita a paesi terzi di sistemi d’arma
prodotti negli Stati Uniti con l’interposizione del Pentagono. In sostanza
l’Aeronautica non potrà acquistare direttamente gli UAV dall’industria
produttrice (la General Atomics Aeronautical Systems di San Diego, California)
ma dovrà affidarsi agli intermediari della Defense Security Cooperation Agency.
Subito dopo la consegna, i due velivoli “MQ-9 Reaper” saranno trasferiti al 28°
Gruppo Velivoli Teleguidati “Le Streghe” di Amendola (Foggia), l’unico reparto
italiano dotato di velivoli senza pilota, il primo in Europa a fornirsi di
sistemi UAV. Il gruppo ha già a disposizione sei “Predator” nella versione A
“RQ-1B” (per le missioni d’intelligence, sorveglianza, riconoscimento degli
obiettivi e per la lotta all’immigrazione “clandestina”) e due nella versione
“MQ-9 Reaper”.
Si tratta di strumenti militari sofisticatissimi e particolarmente costosi. Per
l’acquisto (nel 2004) dei primi cinque sistemi Predator, l’Italia ha speso 47,8
milioni di dollari; due anni più tardi è arrivato un secondo lotto di due
velivoli e relativi mezzi di supporto per 16 milioni di dollari (un UAV era
intanto precipitato in fase di addestramento). Dopo aver utilizzato i Predator
in missioni di guerra in Iraq ed Afghanistan, l’Aeronautica militare ha chiesto
di acquistare pure il modello “Reaper” che può essere armato con missili e bombe
a guida laser.
Il 12 febbraio 2008, la Commissione difesa della Camera ha autorizzato la spesa
sino a 80 milioni di euro per l’acquisizione di quattro Predator B e relativi
sensori, sistemi di controllo a terra e supporti logistici, con termine il 2011.
Per ottenere il consenso unanime al nuovo sistema d’attacco, l’allora
sottosegretario ulivista Giovanni Lorenzo Forcieri assicurò che i “Reaper”
avrebbero avuto il ruolo di meri ricognitori e che non sarebbero stati armati.
“L’opzione di dotare i Predator di armamenti potrà avvenire solo dopo
un’eventuale autorizzazione del Parlamento”, spiegò Forcieri. Il contratto con
la General Atomics Aeronautical Systems fu sottoscritto nel febbraio 2009 e i
velivoli divennero operativi ad Amendola nell’estate 2010. Glissando il
dibattito alle Camere, il ministro della Difesa Ignazio La Russa ha autorizzato
l’uso dei “Reaper” contro obiettivi in Libia a partire dello scorso 10 agosto,
nell’ambito dell’operazione Unified Protector. Stando all’Aeronautica, i
velivoli sono stati impegnati “senza armi” in “attività di ricognizione e
sorveglianza durate all’incirca 12 ore ciascuna”. È forte il sospetto, tuttavia,
che i Predator italiani siano stati impiegati anche in vere e proprie operazioni
di strike.
Il nuovo UAV può essere armato con missili “Hellfire”, bombe a guida laser
Gbu-12 “Paveway II” e Gbu-38 “Jdam” (Joint direct attack munition) a guida Gps.
La postazione standard consiste in una stazione di controllo a terra che, grazie
al data-link satellitare, può guidare il velivolo anche oltre la linea
dell’orizzonte. Il Predator B può essere trasportato a bordo di un aereo C-130
ed essere reso operativo in meno di dodici ore.
Gli AM-X di Amendola hanno funzioni di routine nell’interdizione e nel supporto
aereo alle forze terrestri e navali e partecipano periodicamente a importanti
esercitazioni militari in Canada, Stati Uniti, Francia, Germania, Spagna, Egitto
ed Israele. L’Italia si è impegnata ad acquisire 131 velivoli per la folle spesa
di 16 miliardi di euro. Sempre che i prototipi riescano a superare i test di
volo e si risolvano i numerosi problemi tecnici e progettuali di quello che è
ormai il programma più controverso e più costoso della storia dell’aviazione
militare mondiale.
Posso domandarvi allora chi ha preso questi accordi e quando? Dal momento, che
oggi, non ci siano le condizioni necessarie e sufficienti per adempiere a quanto
richiesto o sottoscritto, ma dal momento che non sono certo che il Pentagono si
curerà della nostra condizione economica al attuale, spero almeno che nel caso
vi dovessero essere altre sorpresine di Natale nel paniere, almeno si provveda
per tempo, a spostarle più avanti, dilazionare i pagamenti o cancellare le
richieste. Lo stato attuale delle cose, non ci consente di fare errori del
genere, e sbagli di valutazione come questo meritano una decisa attenzione e
risposta. Immagino sia lecito chiedere dunque se con le soluzioni del decreto
salva Italia, quelle dei 17 giorni del nuovo governo tecnico, qualche cosina in
più non sia sfuggita a costoro.
Desidererei che prima della fine dell’anno, tutti i contratti riguardanti spese
superiori al milione di euro, da parte del Governo e dello Stato, vengano
pubblicati in Gazzetta, e in rete per il principio di Equità, Giustizia e
Trasparenza, e dato che dal popolo si richiede questo, sarà cosa opportuna per
il bene generale, controllare non solo ogni movimento superiore ai mille euro,
nel cercar pagliuzza, ma anche controllare quali travi sul nostro capo, siano
marcite. Si attivino pertanto costoro a scovar pagliuzza come trave per tempo, e
a soddisfare la nostra lecita curiosità in merito, che il principio dei piatti
si basa su quello della bilancia, e si noti quello che la spinge col dito, preme
il pane col pollice o pesa di fretta per far gravar la spinta. La triarchia in
questione scelga pure il percorso dal male minore, ma lo faccia, che “Qui
nessuno è fesso”, e che, se l’esperienza non mi inganna, parlando in senso lato
e generale, e non per accusar coda di paglia, che al ladro è difficile rubare.
Ci viene rinfacciata l’evasione fiscale, quando gli Intoccabili praticano
l’elusione fiscale. E’ tempo di occuparsi anche di loro. Gli in giudicabili
hanno goduto troppo. Si attivi quindi il ministero della Trasparenza, con lo
scopo di indagare l’invisibile. Quindi quello dell’Armonia perfetta, con lo
scopo di pacificare gli animi e creare ogni bene dapprincipio. E’ imperativo che
da questo momento, le spese del Signor Bona ventura, vengano riportate sul
taccuino. Ipotesi di spesa, citate per tempo, come pure gli accordi per commesse
future, e i contratti, milionari o miliardari che siano; vengano alla luce i
nomi di chi vi ha posto firma, e quando l’hanno fatto, e infine quando v’è stato
voto favorevole in proposito, e quanti l’hanno dato e come.
Riporto qui di seguito le spese relative all’argomento, che recava la
finanziaria del 2008, per meglio definire il problema, dal momento che in realtà
poi alcuni dati ci sono, ma altri a sorpresa fanno capolino.
Il Bilancio della Difesa 2008 – Prime previsioni
Secondo la “Nota aggiuntiva allo stato di previsione per la Difesa per l’anno
2008”, lo stanziamento
complessivo per la Difesa nel 2008 sarà di 20,928 miliardi di €: 733,7 milioni
in più del bilancio di
previsione approvato dal Parlamento per il 2007 (+ 3,6%).
Questo incremento è così suddiviso:
· Funzione Difesa 15,224 miliardi di € (+775,1 milioni rispetto al 2007; + 5,4%)
· Funzione Sicurezza Pubblica 5,358 miliardi € (+27,5 milioni €; +0,5%)
· Funzioni Esterne 115,4 milioni di € (+4,4 ; + 4,0%)
· Pensioni Provvisorie 230,8 mln € (- 73,3 mln €; - 24,1%)
Più interessante guardare quali siano le destinazioni delle spese belliche,
riportare nella seguente tabella (sempre tratta dalla “Nota aggiuntiva…”)
Da questa tabella si ricava un dato importante: la principale voce di aumento
delle spese militari è quella relativa al “investimento”, cioè al riarmo delle
Forze Armate italiane – in linea con quanto richiedono la Nato e l’Unione
europea. Ricordandoci sempre che i finanziamenti aggiuntivi previsti dalla
Finanziaria
2008 riguardano essenzialmente lo “sviluppo tecnologico”, cioè ancora una volta
nuove e più sofisticate armi.
E in tutto questo ancora manca la previsione di spesa per le missioni militari
all’estero: 1 anno di partecipazione alle missioni internazionali costa infatti
1 miliardo di € (esclusi stipendi ai militari e ammortamento attrezzature). Ad
esempio la Missione Unifil in Libano costa quotidianamente 2,1 milioni (esclusi
stipendi dei militari).
Finanziamenti aggiuntivi Finanziaria 2008:
Eurofighter, Programmi internazionali, navi da guerra Fremm
All’aumento generale del bilancio l’ Art. 37 “Partecipazione a programmi
aeronautici ad elevato contenuto tecnologico, interventi nel settore aeronautico
e programmi europei navali e terrestri ad alta tecnologia”
prevede ulteriori finanziamenti aggiuntivi.
La quota più elevata dei fondi aggiuntivi è per il programma di costruzione di
620 Eurofighter (con Germania, Gran Bretagna, Spagna), di cui 121 per l’Italia.
Il Typhoon-Eurofighter (EFA) è il principale programma di collaborazione nella
storia europea nel campo della difesa. Prevede l’utilizzo di missili AIM-9L e
AIM-120, oltre al cannone Mauser da 27 mm e alle bombe guidate classe Paveway.
Il velivolo da difesa aerea più diffuso al mondo, oltre ad essere una macchina
che, per le sue capacità operative, è in
grado di garantire alle forze aeree utilizzatrici la superiorità nei confronti
di qualunque minaccia aerea, è già operativo presso la base militare di Gioia
del Colle (Ba) dallo scorso ottobre.
Si tratta di stanziamenti per 3,904 miliardi € dal 2008 al 2012 ai quali vanno
aggiunti altri 960 milioni per il 2008 e 2009, per un totale di 4,884 miliardi.
“Con questi finanziamenti il programma EFA è a posto e sono confermati tutti gli
impegni che il Parlamento aveva assunto” dichiara il sottosegretario Forcieri in
rappresentanza del governo Prodi; come se la maggioranza di centro sinistra in
Parlamento nel 2006 non fosse stata eletta anche e soprattutto grazie al
movimento pacifista.
Sono confermati i fondi per l’acquisizione di 14 aerei da guerra M346-12 e di
elicotteri EH101 nell’ambito del progetto “Soldato del futuro” – programmi
elettronici per equipaggiare le forze terrestri e aeree, per un totale di 1,050
miliardi di € spalmati in 15 anni.
Sono stati sbloccati, inoltre, i fondi per la costruzione delle prime due navi
da guerra Fremm, per un ammontare di 1,050 milioni da destinare con il
meccanismo dei “contributi quindicennali”, a conferma della politica militare ed
interventista a medio e lungo periodo del governo. Si tratta di ulteriori poste
di bilancio per investimenti che confermano a pieno le intenzioni del Ministero
degli Esteri di ricoprire un ruolo da protagonista nel contesto Nato (relazione
Ministro D’Alema del 21 febbraio 2007).
A questi importi sono state aggiunte spese di funzionamento (ristrutturazione
arsenali, ect) per il 2008 per un totale di 230 mln più altri 450 mln, sempre
secondo il meccanismo dei “contributi quindicennali”.
Oltre alle spese da sostenere per il mantenimento di 1.546 edifici militari, di
cui ben 1.168 posseduti dagli Usa. Parte del mantenimento spetta al bilancio
italiano pari al 41% (366,54 milioni di €).
La spesa nascosta
Ma non basta.Alcuni enti non propriamente di ispirazione pacifista come la Nato,
l’Agenzia di Difesa Europea o il Dipartimento della difesa Usa, ci ricordano che
l’Italia, in linea con la media europea, spende per lo strumento militare nel
suo complesso mediamente circa il 2% del Pil, che tradotto significa una spesa,
media, di circa 25 miliardi di euro all’anno per gli anni Duemila. Questa cifra,
che si discosta notevolmente dal bilancio del ministero della Difesa, deriva dal
fatto che questi enti, come del resto anche il Sipri, il prestigioso Istituto di
ricerche per la pace di Stoccolma, conteggiano tutte le spese dello stato
che servono per l’apparato bellico, quindi anche quelle che non risultano in
carico al ministero della Difesa.
Questo con buona pace dei lacrimandi della difesa nostrani che in periodo di
finanziaria spuntano su giornali e televisioni nel ruolo di “tecnici & esperti”
per raccontare di bilanci da miseria.
Export di armi: il valore delle nuove transazioni autorizzate
La prima relazione sull’export italiano di armi del governo Prodi, più puntuale
del passato ma ancora
incompleta, presenta dati dirompenti, in quantità e qualità. Il valore
complessivo delle autorizzazioni
all’esportazione rilasciate nel 2006 sale infatti a ben 2,19 miliardi di €,
contro gli 1,36 miliardi del
2005. Si tratta dei volumi più alti degli ultimi 10 anni, che superano di poco
il picco del 1999.
Le aziende: chi sono i campioni dell’export
I principali campioni dell’export bellico italiano sono sempre gli stessi:
Agusta (gruppo Finmeccanica, fra i maggiori sponsor della Comunità di
Sant’Egidio e di San Patrignano, presieduta dall’ammiraglio Marcello di Donno,
capo di stato maggiore della marina dal 2001 al 2004), Alenia, Oto Melara
(anch’essa presieduta da un ex capo di stato maggiore dell’esercito, il generale
Giulio Fraticelli), Avio, Selex… anche loro tutte in qualche modo gravitanti
nella galassia Finmeccanica.
La Finmeccanica, azienda leader nel settore, ha aumentato il suo valore
azionario nell’ultimo anno e mezzo passando da i 4, 5 € al tetto massimo del
2007 di 24 € circa, rispetto a un andamento altalenante negli anni in cui la
difesa era presieduta dal Ministro Martino.
L’azionista principale di Finmeccanica è il Ministero dell’Economia e delle
Finanze con una partecipazione
superiore al 30% del capitale sociale, così come stabilito dal D.P.C.M. del 28
settembre 1999. Anche per il 2006
confermano Finmeccanica tra i principali investitori mondiali nell’alta
tecnologia nei settori di Aerospazio, Difesa e
Sicurezza con un significativo aumento degli investimenti, compresi quelli per
la ricerca e sviluppo (1.783 milioni
di euro, pari al 14% dei ricavi). Per il Gruppo Finmeccanica il 2006 si chiude
con un utile netto consolidato di 1.020
milioni di euro, con un aumento di 624 milioni (+158%) rispetto ai 396 milioni
del 2005. I ricavi sono pari a 12.472
milioni di euro, in crescita di 1.520 milioni, pari al 14%, rispetto ai 10.952
milioni del 2005. Gli ordini acquisiti nel
2006 ammontano a 15.725 milioni di euro con un aumento di 342 milioni, pari al
2%, rispetto ai 15.383 milioni del
2005. Del totale ordini oltre il 56% è relativo al mercato militare con una
tendenza alla crescita rispetto alla
percentuale del 2005. Il portafoglio ordini a fine 2006 si attesta a 35.810
milioni di euro con un incremento di
3.696 milioni (+12%) rispetto ai 32.114 milioni del 31 dicembre 2005 e assicura
al Gruppo una copertura
equivalente a circa tre anni di produzione. L’indebitamento finanziario netto,
al 31 dicembre 2006, è di 858 milionidi euro con un decremento netto di 242
milioni (-22%) rispetto ai 1.100 milioni del 2005. Inoltre, l’Assemblea degli
Azionisti ha approvato la conferma nella carica di amministratore di Filippo
Andreatta, già nominato per
cooptazione dal Consiglio di Amministrazione del 27 marzo 2007. Da Dedalo
News.it.
L’onore per il migliore esportatore va ad Agusta che, forte anche del contratto
per gli elicotteri militari
Usa, vola fino ad 810 milioni di € di vendite (il 38% circa del totale
italiano). Si conferma come lo scorso
anno in testa alla classifica, ma aumenta di ben 4 volte e mezzo il valore
complessivo dei propri affari con
l’estero. Le altre aziende, però, non possono certo lamentarsi: Alenia
Aeronautica triplica il proprio export,
mentre Oto Melara e Avio lo raddoppiano quasi.
Le prime dieci aziende
• AGUSTA con il 37,97%, pari a circa 810,6 mln. di €;
• ALENIA Aeronautica con il 14,2%, pari a circa 311,25 mln. di €;
• OTO MELARA con il 12,92%, pari a circa 283,3 mln. di €;
• AVIO con il 5,81%, pari a circa 127,35 mln. di €;
• LITAL con il 5,65%, pari a circa 123,85 mln. di €
• SELEX Sistemi Integrati con il 3,72%, par a circa 81,5 mln. di €;
• ALENIA AERMACCHI con il 3,35%, pari a circa 73,4 mln. di €;
• ALCATEL ALENIA Space Italia con il 3,26%, pari a circa 71,5 mln. di €;
• IVECO con il 2,26%, pari a circa 49,6 mln. di €;
• GALILEO AVIONICA con il 1,46%, pari a circa 32,1 mln. di €
Dove finiscono le armi made in Italy. Per quanto riguarda i Paesi destinatari
dei nostri prodotti bellici e
militari, si confermano sostanzialmente le fette di mercato degli ultimi anni:
il 63% verso i Paesi della
Nato o dell’Ue, e il restante per i Paesi fuori Unione o fuori Alleanza. Tra i
primi, ai vertici della
classifica troviamo gli Stati Uniti d’America, che oltre alla flotta di
elicotteri presidenziali dell’Agusta
acquistano dall’Italia “bombe, siluri, razzi, missili, navi da guerra, esplosivi
militari e armi automatiche” di
tutti i calabri per un totale di 349,6 mln di € (fonte relazione Presidenza del
Consiglio). Gli Usa sono
seguiti da Polonia (227 milioni), Regno Unito (160 milioni) e Austria (152
milioni). Da soli i Paesi
appartenenti alla Unione europea e alla Nato hanno messo insieme consegne di
armi italiane superiori al
totale complessivo esportato nel 2005 (1396 milioni contro 1360 milioni).
Dati interessanti derivano invece dall’analisi delle esportazioni avvenute verso
nazioni non Ue e non Nato. Al vertice troviamo gli Emirati Arabi Uniti – Stato
che nei rapporti di Human Right Watch e Amnesty International si distingue
per “vessazioni nei confronti delle organizzazioni per la tutela dei diritti
umani - che riceveranno ben 338
milioni di euro di armamenti made in Italy, consistenti in “bombe, siluri,
razzi, missili, navi da guerra,
aeromobili”.
I ricchi petrolieri del deserto hanno ordinato in Italia armi o sistemi d’arma
di calibro superiore ai 12,7
millimetri, bombe, siluri, razzi, missili (con relativi accessori), navi da
guerra e aeromobili. Senza
dimenticare apparecchiature elettroniche e di collaudo e munizioni varie. Molto
più distanti, tutti al di
sotto degli 80 milioni di euro, gli altri Paesi di questo gruppo, per i quali le
nostre aziende hanno ricevuto
le prescritte autorizzazioni.
Nella lista ci sono nomi poco rassicuranti: l’Oman (78 milioni per una nazione
così piccola?), la Nigeria
(teatro recentemente di sequestri ai danni di tecnici italiani dell’Eni), la
Corea del Sud incuneata in una
delle aree più delicate del pianeta. In attesa di capire, con la pubblicazione
delle tabelle integrali, quali tipi
di arma siano finiti nelle varie destinazioni, è utile citare altri Paesi
rilevanti per l’export in area non-
Ue/non-Nato: India e Pakistan, con la solita suddivisione quasi ecumenica (27
milioni a 22), il Venezuela
e poi Libia e Singapore.
Scorporando i dati in fasce di importo si conferma la tendenza ad avere molti
contratti di piccole
dimensioni (ben il 96% è relativo a materiali di valori inferiori ai 10
milioni), mentre il peso maggiore in
termini finanziari lo si ha con pochi contratti “formato maxi” (sono 12, il
doppio dello scorso anno,
corrispondenti all’1,4%). Queste autorizzazioni sforano il muro del miliardo e
cento milioni di euro e
superano il 50% del totale (contro il 27% dello scorso anno). Anche per quanto
riguarda le esportazioni
definitive, conseguenti alle autorizzazioni degli scorsi anni, si è avuta una
crescita del 12% con un importo
complessivo di 937 milioni di euro.
Le prime dieci destinazioni
STATI UNITI D’AMERICA con il 15,95%, pari a circa 349,6 mln. di € con 102
autorizzazioni,
• EMIRATI ARABI UNITI con il 15,42%, pari a 338,2 mln. di € con 29
autorizzazioni;
• POLONIA con il 10,38%, pari 227,6 mln. di € con 9 autorizzazioni;
• Regno Unito con il 7,26%, pari a circa 159,25 mln. di € con 49 autorizzazioni;
• AUSTRIA con il 6,97%, pari a circa 152,8 mln. di € con 27 autorizzazioni;
• GERMANIA con il 5,20%, pari a circa 113,98 mln. di € con 48 autorizzazioni;
• BULGARIA con il 4,19%, pari a circa 91,8 mln. di € con 1 autorizzazione;
• OdMAN con il 3,59%, pari a 78,67 mln. di € con 7 autorizzazioni;
• LITUANIA con il 3,45%, pari a 75,7 mln. di € con 6 autorizzazioni;
• NIGERIA con il 3,39%, pari a 74,4 mln. di € con 2 autorizzazioni.
I profitti delle “banche armate”…sponsor ufficiale di Prodi durante la campagna
elettore del 2006
Uno degli aspetti da sempre più osservati e sensibili in tema di armamenti è la
lista delle cosiddette
“banche armate”. Va ricordato che i dati relativi agli istituti di credito
riguardano gli importi degli incassi
autorizzati sui conti delle ditte armiere che vengono pagate per le commesse
degli anni precedenti
effettivamente esportate. Non si tratta, perciò, degli effettivi interessi o
investimenti che le banche
incanalano nel business militare ma della loro tendenza a mettersi a servizio,
come operatori tecnici
finanziari, delle transazioni di compravendita di armi. La percentuale varia tra
il 3 e il 10 per cento della
commessa.
E’ ancora San Paolo-Imi la regina delle “banche armate”. Nel 2006 sui conti
dell’istituto torinese sono
transitati ben 446 milioni di euro frutto di transazioni internazionali per la
compravendita di armi. L’anno
precedente erano 164 milioni. San Paolo ha canalizzato circa un terzo dei flussi
di cassa del settore, che
nell’ultimo anno sono cresciuti del 32% circa, passando da 1,125 a 1,492
miliardi di euro. A seguire le
altre tra cui il gruppo BNP-Paribas, Unicredit, Banca nazionale del lavoro
(Bnl), Banca Intesa, Banco di
Brescia ed anche Banca popolare di Milano. Ricompare Banca Intesa del cattolico
Batoli che in passato
aveva annunciato di voler uscire dal sostegno al commercio delle armi, ma che ha
realizzato incassi per 46
miln di euro, in aumento dopo la fusione con San Paolo Imi.
Da segnalare, come già annunciato da Adista (v. Adista n. 3/07), la presenza di
Banca popolare di Milano (17 milioni di euro), tra i soci di Banca Etica.
Questa impennata dell’export, affiancata alla manifestata volontà del governo di
non tenere in
considerazione l’ipotesi di riconversione dell’industria bellica, prevista dalla
legge, perché non
conveniente economicamente, delineano una linea dell’esecutivo preoccupante, in
palese contrasto con il
programma dell’Unione presentato agli elettori.
Con l’aumento delle spese militari e l’adesione dell’Italia ai progetti
americani del nuovo caccia Jsf e dello scudo stellare continua, si rafforza e si
consolida per l’Italia una preoccupante e pericolosa corsa al riarmo a spese
anche e soprattutto dei lavoratori e delle lavoratrici italiane, i primi
contribuenti in Italia per % di entrata.
E infatti ce ne siamo accorti!!!
Un commercio due volte illecito. Il governo, alla scadenza del 31 marzo, ha reso
pubblico solo un
“Rapporto” e non l’intera “Relazione sull’esportazione di armi” – come prevede
espressamente la legge
185/90 – dove sono contenuti tutti i dati nel dettaglio. Il Rapporto facilita la
lettura dei dati dell’Istituto
Affari Internazionali, ma ne omette tanti altri penalizzando così la
trasparenza. Così come, in deroga alla stessa legge del ’90, che limita
l’esportazione di armamenti verso paesi in guerra e conflitti armati e paesi che
violano i diritti umani, i valori e le leggi del profitto e del mercato non
possono rispondere a leggi democratiche, che cercano di limitare il traffico
legale di armi.
Da un articolo di CI
La recente dichiarazione dell’ex segretario alla difesa americana Bob Gates -
con la quale si invitavano i partners alleati europei ad impegnarsi di più in
termini di investimenti militari per dare un valido contributo agli Usa nella
gestione delle crisi internazionali e non basarsi interamente sull’apparato
militare americano - ha riaperto un’annosa questione e vecchie ferite nel
rapporto transatlantico. Il tema si è già riproposto periodicamente nei decenni
passati, quando in epoca di guerra fredda, dinanzi alla minaccia sovietica, le
capacità difensive europee si basavano quasi esclusivamente sull’apparato di
difesa americano se si esclude la force de frappe francese e l’arsenale nucleare
britannico. Le cause della tale situazione sono da ricercare in parte nella
scarsa sensibilità di alcuni paesi tra i quali l’Italia per i temi della difesa
e degli investimenti militari; ma a livello generale europeo si può ben dire che
nell’ambito delle politiche governative i temi della difesa e degli investimenti
militari sono stati relegati in secondo piano a favore delle politiche sociali
del welfare state. Cosi nella gestione delle crisi internazionali e delle
minacce terroristiche, malgrado un’enfatica politica estera europea di sicurezza
e difesa, si aspetta sempre che gli Usa si muovano con il loro apparato militare
per poi accodarsi in ordine sparso con vari distinguo, e livelli di
partecipazione diversi a seconda dei mutevoli contesti politici interni
nazionali.
Finita la guerra fredda nel Ventunesimo secolo tale situazione non è più
sostenibile e, così come evidenziato dalla dichiarazione di Gates, occorre un
ripensamento delle politiche militari dei vari stati europei, una ricalibratura
degli investimenti militari per far sì che il rapporto transatlantico in termini
di efficienza e capacità d’intervento non sia squilibrato a favore degli Usa
come appare ora. Con ciò non si vuole sostituire al sistema di welfare state uno
di warfare state, ma si vuole porre gli stati europei dinanzi alle proprie
responsabilità, consci una volta per tutte che la sicurezza non è un prodotto a
costo zero e che non si può essere usufruitori di sicurezza senza esserne anche
produttori.
Per Inciso: Mi pare che il problema della fruizione, non si pone dal momento che
gli stiamo comprando 16 miliardi di dollari di bombardieri, e che in termini di
produzione, sono stato esaustivo nella prima parte dell’articolo, dandovi i
numeri di milioni di dollari di commesse vendute e soldi guadagnati da società
Italiane, nonché i nomi delle Banche e dei produttori stessi di armi.
CONTINUA: La dichiarazione di Gates va valutata ed esaminata nella sua duplice
valenza americana ed europea: all’interno dell’amministrazione americana c’è
malcontento per il contributo europeo in termini di difesa e lo scoppio della
crisi libica ha acuito questo malumore soprattutto quando ci si confronta con i
costi che gli Usa stanno sostenendo nel nord Africa (1 miliardo dollari) 1/10
del bilancio annuale militare italiano.
Ma se abbiamo da pagare una commessa di 16 miliardi di dollari al Pentagono,
l’articolo di Iannone afferma che un decimo di un miliardo di dollari, e cioè
100 milioni di dollari, sono il nostro bilancio militare annuale!!! Se qualcuno
ha forse l’idea di farci passare per risparmiatori in senso di spese militari,
lo dica pure, e se altri vorrebbero convincere i lettori che è giusto spendere
soldi per una corsa al riarmo perche gli Stati Uniti non possono sobbarcarsi
tutto il lavoro, allora siamo convinti. Giusto. Peccato che le cifre siano
completamente sballate, e pare di capire che soffino in una direzione precisa.
A livello europeo la chiamata a maggiore investimento per la difesa avviene in
uno dei peggiori periodi di crisi economica, e così il dilemma storico “burro o
cannoni” sembra avere agli occhi europei una soluzione scontata nel preservare
sistemi sociali impostati sul welfare che assorbono risorse in maniera abnorme
con una ridistribuzione clientelare ed assistenziale tra cittadini ormai
demotivati ed impigriti da un tale assistenzialismo.
L’ultima critica, che riporto qui, serve solo a farvi capire come si opera nel
campo del lavaggio del cervello, e come, dopo aver instillato una memoria, nella
mente di qualcuno, si passi ad altro contenuto rapidamente, capace di
memorizzare il precedente, che non verrà cancellato, o riconsiderato dalla fase
critica della mente, ma passerà per buono. I motivi di cui sopra, sono puramente
economici, perché in campo finanziario, affare più grande è la morte stessa. Più
un’arma è d’offesa, maggiore ne è il costo. Chiamare in causa la democrazia
quindi, o altri valori, è quindi pura ipocrisia. Etica, morale e fede, sono
parole estremamente distanti dal vocabolario dei finanzieri, che parlano un puro
“Numerale”, la più primitiva forma di linguaggio binario, madre di tutti i
conflitti e figlia dell’Egoismo assoluto.
Costoro contravvengono alla prima legge di vita nella quale si dice: Nessuno ha
il diritto di produrre strumenti di morte e di sterminio per il presente come
per il futuro. Chi ne costruisca o ne utilizzi, arricchendosi, comprando o
vendendo tali marchingegni, contravvenendo alla prima legge di vita e avendo
sottoscritto patti, contratti e commesse con i dannati che non sanno apprezzare
il mondo, ( chiarito che non esiste una volta per tutte causa legittima di un
tale modo di operare ), verrà condannato all’erranza perpetua, e al senza numero
né nome, per vagare sino a quando il suo cuore non avrà trovato pace.
Continua l’articolo:
La crisi economica non aiuta l’allocazione di risorse per investimenti militari
ma, proprio dagli States, uno studio di Martin Feldstein ripropone un vecchio
cliché in voga in era Reaganiana quando il riarmo anti Urss venne sfruttato come
traino di crescita per la depressa economia americana. Infatti secondo
l’economista le spese militari possono essere fattore di crescita per l’intero
settore economico, ma occorre tenere nella giusta considerazione che il mercato
militare si presenta con le caratteristiche oligopolistiche per eccellenza, e
che nel valutare le economie di scala che si possono determinare occorre
esaminare anche il livello tecnologico del Paese. Così una nazione poco
sviluppata può godere solo in parte dell’effetto moltiplicatore determinato
dagli investimenti militari mentre una molto sviluppata può goderne in pieno, a
condizione però di non ridurre gli investimenti privati e gli incentivi di
stato.
- La parabola del riarmo e dei privati che non vogliono rinunciare agli
incentivi di stato. -
Nel caso americano se Obama decidesse di adottare una politica reaganiana -
considerando che gli Usa spendono per la difesa circa 700 mld dollari l’anno,
somma pari a quella del resto del mondo e soprattutto pari a quella che lo
stesso Obama pensa di investire come stimulus package per l’economia americana -
nel breve periodo sarebbe necessario aumentare la spesa militare per favorire la
crescita. Invece a lungo termine, per avere effetti duraturi in termini di
crescita economica, occorrerebbe eliminare le inefficienze che pure ci sono in
ambito di burocrazie militari. In termini economici il dilemma è quello cui
abbiamo già accennato: se gli Usa siano in grado di seguire sul piano degli
investimenti militari una politica reaganiana o di continuare a sovvenzionare i
costi della difesa europea.
La questione appare agli occhi dell’economista William Niskanen senza logica,
dal momento che il bene pubblico “difesa” deve essere esattamente inserito come
altri beni pubblici nei bilanci dei singoli stati sovrani. Per quanto riguarda
il bilancio americano le stime per il 2011 evidenziano una spesa pari a 550
miliardi di dollari più di quanto Reagan spese al culmine delle spese di riarmo
anti Urss negli anni Ottanta. La riflessione che all’interno
dell’amministrazione americanai vari esperti fanno sui compiti della potenza
globale fa sì che qualsiasi stanziamento di bilancio venga ingoiato dal
rendiconto della difesa e risulti insufficiente, se non si arriva ad una
razionalizzazione delle priorità in termini di sicurezza nazionale ed a un
maggior coinvolgimento degli alleati europei.
Senza dubbio la crisi mondiale ha generato un dibattito costruttivo sui modi di
rendere meno oneroso per la collettività americana il suo bilancio militare; c’è
la realistica consapevolezza che con una politica estera meno dispendiosa ed
interventista gli Stati Uniti possano mantenere un vantaggio considerevole su
qualsiasi ipotesi di coalizione nemica, pur risparmiando 1,2 milioni di miliardi
di dollari per i prossimi 10 anni. Ciò è possibile se si riordina l’agenda degli
impegni internazionali ed il relativo impiego dello strumento militare, perché
non è possibile mantenere allo stesso tempo una politica estera di high profile
e fare economie a livello di investimenti militari.
( ma farsi pagare le commesse più care, passando prima per il Pentagono, questo
si )
Dopo quest’ampia parentesi sui problemi della difesa Usa e relativi
bilanci-investimenti, affrontiamo ora il tema base della nostra ricerca: le
spese militari europee. È stato asserito all’inizio del saggio di come, a
livello europeo, i temi della difesa e dell’importanza degli investimenti
militari, soprattutto nello strategico settore della ricerca e sviluppo, siano
considerati in maniera diseguale dai singoli stati. Non vi è dubbio che
l’eredità storica, il passato imperiale, un contesto politico interno omogeneo -
soprattutto in tema del valore di riferimento sicurezza e difesa della patria -
abbiano una certa rilevanza quando cerchiamo di spiegarci perché taluni paesi
compresa l’Italia spendono e stanziano cifre modeste per il loro apparato
militare.
In sede europea si è cercato di dare soluzione a tale problematica cercando di
centralizzare l’azione di politica estera e di difesa con la “Sezione europea
azione esterna” (SEAE). Questo per evitare gli inconvenienti delle diverse
politiche estere nazionali e i relativi retaggi storici, ma ci si è dovuti
comunque confrontare con le diverse concezioni nazionali in termini di sicurezza
e difesa. Ad esempio la Francia, da sempre attenta e sensibile ai temi della
grandeur e della sovranità nazionale, ha teorizzato il concetto di “Europa
potenza” contro la logica bipolare in epoca di guerra fredda e contro
l’unipolarismo dopo la fine della stessa per far risplendere a livello
internazionale il suo prestigio determinato anche dall’atout nucleare della
force de frappe. Quindi da parte francese ci si è serviti dell’Europa come
moltiplicatore della propria potenza nazionale. Diversamente dalla Francia, la
Gran Bretagna - dall’alto della sua “special relantionship” con gli Usa - ha
adottato per i temi della sicurezza e difesa nazionale un approccio
intergovernativo più che sovranazionale. Così mentre da parte francese si è
cercato di dare vita ad un’efficace politica di difesa europea, da parte
britannica si è rimasti vincolati ad un approccio intergovernativ - informale
che si doveva concretizzare in atteggiamenti pragmatici ed intergovernativi per
le questioni della difesa e della sicurezza nazionali che non dovevano intaccare
la sacralità della sovranità nazionale.
Ora numeri numeri numeri
Insieme a queste logiche governative che ci aiutano anche a comprendere in
termini numerici le diverse percezioni nazionali del tema della sicurezza in
Europa, va valutata anche la scelta di fare di questo continente una “potenza
civile” e non militare servendosi di un elevato soft power che lo possa
riportare al centro della vita internazionale. Senza dubbio la visione europea
può risultare affascinante soprattutto per quei settori dell’opinione pubblica e
della politica da sempre estranei e volontariamente sordi alle problematiche
della difesa e della sicurezza nazionale; ma la realtà si impone in tutta la sua
complessità. Così un recente report del Center for strategic and international
studies ha evidenziato come a grandi linee i paesi europei abbiano mantenuto nel
corso degli ultimi anni bassi livelli di preparazione e di capacità di “combat
ready” per gli eserciti nazionali dei paesi aderenti alla NATO.
In particolare si è notato come nell’arco di tempo 2001-2009 il numero del
personale militare dei paesi NATO si è ridotto dai 3,5 milioni d’unità del 2001
a 2,3 milioni d’unità del 2009. Ora alla luce di ulteriori tagli dei bilanci
militari pari al 6% per l’anno 2011 si prevede una diminuita capacità dei paesi
NATO di partecipare in modo fattivo alle missioni militari nelle aree di crisi
ed in particolare si scorge un potenziale vulnus nella credibilità militare
della stessa Alleanza, anche in virtù di ciò che è stato deliberato nello
“strategic concept” del 2010 in occasione del summit di Lisbona, nel quale si è
decisa l’adozione di un pacchetto di misure e di dotazione d’armamenti che
permettono alla NATO di fronteggiare qualsiasi tipo di minaccia: dalla cyber war
alla difesa missilistica da possibili attacchi di “rogues states”. Inoltre per
migliorare l’efficienza dello strumento militare si è deciso di favorire tra i
paesi dell’Alleanza una nuova collaborazione sulla base dell’interoperabilità e
della specializzazione per evitare sprechi di risorse ed una migliore
allocazione delle risorse non più sulla base delle logiche nazionali bensì nel
contesto più generale dell’alleanza.
La spesa militare europea va valutata non solo secondo un’ottica nazionale ma
anche secondo i parametri e le indicazioni che provengono dall’appartenenza dei
suddetti paesi alla NATO. Abbiamo già accennato come nel summit di Lisbona del
2010 è stato approvato il piano strategico per gli anni seguenti soprattutto in
riferimento alla gestione delle crisi internazionali e così, per garantire una
maggiore sicurezza dei membri dell’alleanza oltre che una maggiore celerità
nell’approccio e nella gestione delle crisi internazionali, si sono delineate e
specificate le varie fasi che vanno dalla prevenzione della crisi alla gestione
della crisi stessa, dalla stabilizzazione dopo intervento militare alla
ricostruzione. Per garantire una tale gestione della crisi in ambito NATO si è
pensato anche di affiancarle lo strumento economico rappresentato dal “Programma
sicurezza ed investimenti” (NSIP) per l’anno 2011, nel quale si evidenziano
alcuni punti focali come gli investimenti militari, la razionalizzazione delle
forze armate per ricercare il massimo vantaggio operativo, la necessità da parte
europea di colmare il divario militare nei confronti degli USA e di adeguarsi
alla Rivoluzione degli Affari Militari (RMA) avvenuta dopo la fina della guerra
fredda.
Anche riguardo quest’ultimo aspetto è stato evidenziato, da parte di alcuni
paesi, come Gran Bretagna e Francia cerchino di adeguarsi alla RMA, soprattutto
per quanto concerne il campo delle tecnologie informatiche applicate alla
difesa, mentre altri paesi adottano politiche che allargano ancor di più il
divario militare con gli altri paesi. In termini grezzi di aride cifre
numeriche, che poi sono quelle che racchiudono ed spiegano meglio il nocciolo
della questione, possiamo dire che secondo gli ultimi dati disponibili forniti
dal SIPRI di Stoccolma malgrado la crisi economica mondiale, che ha determinato
decurtazioni nei bilanci militari, la Gran Bretagna e la Francia siano di gran
lunga i paesi che investono di più in termini di ricerca militare. Infatti
dinanzi ad una riduzione del 10% per l’anno 2010 la Gran Bretagna spende per
investimenti militari la cifra di 38,4 miliardi di euro, la Francia è invece
stabile con un 0,3% e spende 32 miliardi di euro, la Spagna con una riduzione
degli stanziamenti per il 2010 del 4% spende 7,7 miliardi di euro mentre
l’Italia, a fronte di una decurtazione di stanziamenti per il 2010 del 2%,
spende 14,3 miliardi di euro.
In rapporto al PIL la Gran Bretagna si posiziona al 2,3%, la Francia al 1,7%, la
Germania al 1,8%, l’Italia al 0,9%, la Spagna al 0,7%. In termini di spesa per
la ricerca dai dati si evince come la Gran Bretagna e la Francia spendano di più
con rispettivamente 15,6 e 10,5 miliardi di euro, mentre altri paesi come la
Germania, l’Italia e la Spagna si assestano rispettivamente sul 7,6%, 3,2% e
1,1% del proprio bilancio militare per le spese di ricerca e sviluppo. Per
rendere ancor di più l’idea della pochezza numerica di tali stanziamenti
possiamo dire che, considerato l’aggregato popolazione europea e il Pil prodotto
e paragonato agli USA, l’Europa spende per investimenti militari 1/4 di quanto
spendono gli Stati Uniti mentre la percentuale delle spese per ricerca e
sviluppo assomma ad 1/6 della spesa americana.
Un altro parametro utile per farci comprendere la dimensione della spesa
militare europea è dato dal raffronto delle spese per il singolo soldato tra i
vari paesi europei. Così per l’Italia abbiamo una spesa di 82.000 euro annui
rispetto ai 194.000 della Gran Bretagna, 136.000 della Francia, 124.000 della
Germania. Sulla base di questi dati ed appoggiandoci sempre sui dati SIPRI del
2011 possiamo dire che, dinanzi ad una spesa mondiale di 1630 miliardi di
dollari (in termini reali +1,3% rispetto al 2009 e +50% rispetto al 2001 che
costituisce il 2,6% del PIL mondiale pari ad una spesa pro capite per abitante
di 236 dollari), l’apporto degli Usa risulta determinante se si considera che il
resto del mondo, esclusi gli Stati Uniti, contribuisca solo per lo 0,1%. Ed
ancora in un arco di tempo più ampio 2001-2010 possiamo vedere come le spese
militari USA sono cresciute del 81% a fronte di una crescita del 32% del resto
del mondo e del 2,8% dell’Europa[19]. A fronte di una crescita delle spese
americane per il 2010 di solo 2,8% rispetto ad una media del 7,4% negli ultimi
10 anni possiamo quantificare la suddetta spesa nella cifra di 689 miliardi di
dollari nella quale sono compresi gli oneri per la difesa, l’intelligence, gli
interventi all’estero, gli approvvigionamenti, la ricerca e lo sviluppo.
Se diamo uno sguardo ai dati di spesa che trapelano per l’anno 2011 possiamo ben
dire che la forbice tra spesa militare americana ed europea non può che
allargarsi: in sede NATO sono previsti tagli pari a 300 milioni di euro, il
-18,2% rispetto 2010 dai fondi d’esercizio che includono spese per carburanti,
ricambi, addestramento del personale. In termini di investimenti per il 2011 si
è previsto un bilancio di 3.454,700 milioni di euro con un +266 milioni euro
rispetto al 2010 in cui sono compresi anche i progetti NATO Eurofighter, F.35
Joint strike fighter oltre che all’acquisto degli elicotteri NH 90 Tornado e
sommergibili U122. Il bilancio difesa dei paesi NATO per il 2011 è pari a
20.556.900.000 milioni di euro, il 2,2% del PIL; ora al netto dei fondi
destinati alla difesa scendiamo a 14.787.000.000 milioni di euro, lo 0,92% PIL
ed al netto delle funzioni esterne ed ausiliarie si ha il reale bilancio della
difesa paesi NATO: 14.360.000.000 milioni di euro, lo 0,89% del PIL.
Analizzando i dati dei paesi NATO e soffermandoci sulla funzione difesa dei
bilanci militari europei possiamo dire che la Gran Bretagna stanzia per la
funzione difesa 38.348 milioni euro (pari al 2,32 Pil per una spesa pro capite
di 617 euro), la Francia 32.150 milioni euro (pari al 1,61% PIL per una spesa
pro capite di 496 euro), la Germania 31.367 milioni euro (pari al 1,28 PIL per
una spesa pro capite 384 euro). Se allarghiamo lo sguardo ai paesi dell’Europa
orientale, quasi tutti entrati nell’Alleanza atlantica, possiamo notare come il
trend emerso per i paesi NATO dell’Europa occidentale sulla decurtazione e
riduzione dei fondi disponibili per gli investimenti militari, si presenta
ancora più accentuato. I dati infatti testimoniano un -28% per la Bulgaria, -26%
per la Lituania, -25% per la Georgia, -10% per Albania, Grecia e Slovacchia. Se
poi vogliamo valutare l’andamento degli investimenti militari in Europa
orientale per il periodo 2001-2011 possiamo dire che la crisi economica ha fatto
lievitare gli investimenti militari solo del 4,1%.
Dopo aver passato in rassegna i bilanci militari dei paesi europei chiudiamo la
ricerca esaminando la spesa militare italiana e le politiche di difesa e
sicurezza nazionale adottate dal nostro governo. Prima di entrare nell’arido
contesto dei numeri e delle cifre di spesa è opportuno fare alcune digressioni
sulla politica di difesa adottata dal nostro paese negli ultimi 50 anni. In tale
arco temporale ci si è basati sulla collaborazione transatlantica e sul processo
d’integrazione europeo, uniche possibilità di restare aggrappati ai vertici
della politica di sicurezza e difesa mondiali evitando in tal modo velleitarismi
e fughe in avanti che non potevamo permetterci. A lungo andare l’ancoraggio
europeo ed atlantico non ha evitato il deterioramento della funzionalità
operativa delle forze armate italiane anche in virtù di stanziamenti
insufficienti per garantire alti standard di “combat ready”e qualità degli
armamenti.
Se poi a ciò aggiungiamo un certo squilibrio tra le voci di spesa del bilancio
militare italiano ne viene fuori un quadro a dir poco desolante: l’equilibrio
ottimale, che prevede un 50% per le spese di stipendi-retribuzioni ed un altro
50% per la modernizzazione dei mezzi militari ed l’addestramento delle truppe,
risulta squilibrato a favore della voce stipendi per il 60% del bilancio,
risultando comunque una percentuale esigua, circa il 26,5%, per la
modernizzazione dei mezzi militari, e il 12,5% circa per l’addestramento delle
truppe. Le cause di un tale squilibrio sono da ricercare nel fatto che le forze
armate sono state intese soprattutto nei decenni scorsi come una valvola di
sfogo, un ammortizzatore sociale necessario a dare lavoro a tanti giovani
laddove l’offerta di lavoro era scarsa se non inesistente; tutto ciò a discapito
dell’efficienza e della qualità dello strumento militare.
Senza dubbio nel nuovo panorama della politica mondiale e dei focolai di crisi
internazionali si richiede ai paesi che vogliono avere una statura
internazionale un valido strumento militare con capacità di intervento rapido
nelle aree di crisi. Perciò anche in Italia sulla spinta dell’abbandono della
leva di massa a favore del professionismo ci si interroga sugli stanziamenti
militari e sul miglior uso possibile dei pochi fondi disponibili. Mancando
risorse aggiuntive per i noti motivi della crisi mondiale, l’unico modo per
trovare fondi disponibili per gli investimenti si rivela la razionalizzazione
del bilancio attuale, eliminando in tal modo gli sprechi e gli squilibri di
spesa a cui abbiamo fatto cenno. Così appare necessaria una riduzione della
quota del bilancio per gli stipendi, da portare sotto il 50%, ed un aumento
delle cifre per la modernizzazione dei mezzi e l’addestramento delle truppe da
portare intorno al 25%.
Addentrandoci ancor di più nella giungla delle cifre possiamo dire che per il
2011 il bilancio di previsione per gli affari militari si attesta sulla cifra di
20,4 miliardi di euro con un +6,6% rispetto al 2010. Occorre anche considerare
che sotto la voce “Funzione Difesa” e quindi nel relativo bilancio sono comprese
anche altre voci come la funzione sicurezza del territorio (Carabinieri) e la
funzione esterna. La questione non è irrilevante dal momento che se sottraiamo
dal bilancio del 2011 le due voci sovra citate vediamo come lo stanziamento per
la funzione difesa si riduce a 14,3 miliardi euro segnando un +0,2% rispetto al
2010. Andando ancora più a scavare all’interno delle voci della funzione
difesa[31] possiamo vedere come le spese per il personale si assestano sulla
cifra di 9,4 miliardi euro (+0,9 rispetto 2010), quelle per l’addestramento
segnano un -18% rispetto al 2010 (pari a fondi inferiori di 320 milioni euro
rispetto al 2010) mentre quelle per gli investimenti si fermano a 3,4 miliardi
euro. Se noi volessimo rappresentare su un diagramma a torta l’andamento del
bilancio funzione difesa italiano per l’anno 2011 vedremmo come le tre voci
“personale”, “addestramento” ed “investimenti” invece di avere un equilibrio
ottimale del 40% per il personale e del 30% per le altre due voci, si rivela
ancora squilibrato alla voce spese per il personale (65,8% del bilancio)
lasciando uno scarso 10% per l’addestramento e il 24% per gli investimenti.
Alla luce delle cifre stanziate e degli impegni internazionali del nostro
esercito, non ultima la crisi libica, appare evidente come ci sia una certa
incongruenza: basti pensare che per la crisi libica i costi hanno raggiunto la
cifra di 8 milioni euro dei quali 5,5 milioni per le missioni navali d’appoggio.
Se poi allarghiamo lo sguardo alle spese sostenute negli ultimi tre mesi vediamo
come si siano raggiunti i 700 milioni euro per le missioni Odissea all’alba ed
Unified Protector in Libia. A tali costi vanno aggiunti quelli per la missione
in Libano in ambito Unifil pari a 22,3 milioni euro al mese: la nave Libeccio
per esempio ha un costo giornaliero di 60.000 euro, la portaerei Garibaldi
130.000 euro, i velivoli Harrier 9.000 euro, i missili in dotazione ai nostri
Tornado un costo di 300.000 euro cadauno.
Tali spese[33] determinano un costo complessivo[34] per il nostro paese per i
primi 6 mesi del 2011 pari ad un miliardo e mezzo di euro, lo 0,2% del bilancio
difesa che arriva a stento a coprire i dati degli stanziamenti previsti. Urge
quindi una razionalizzazione dei costi e del relativo bilancio militare nonché
un esercito più snello che assesti sulle 150.000-165.000 unità a fronte dei
179.600 attuali che costano 16,5 miliardi di euro rispetto ai 20 stanziati. Il
ministro della difesa La Russa ha dichiarato come in occasione della manovra
estiva ci saranno risparmi e tagli solo per le spese correnti e non per gli
investimenti, per quanto riguarda il bilancio militare italiano. In tal modo
dovrebbero essere salvi i progetti avviati per il caccia Lockeed Martin F35 e il
lanciamissili Fremm anche se si ignorano a questo punto i tempi di consegna dei
primi prototipi.
Il tema della difesa e sicurezza nazionale che in questa ricerca sono stati
approcciati in termini economici e di spese per i singoli paesi europei
richiedono la massima attenzione e sensibilità da parte delle opinioni
pubbliche, consci del fatto che la difesa nazionale, parte della sovranità
nazionale e la sicurezza, oltre a non essere mai a costo zero non possono essere
mai al 100% perchè come diceva Henry Kissinger “la ricerca della massima
sicurezza per il proprio paese comporta la massima insicurezza per i paesi
vicini”.
Ma è proprio questa che viene messa in discussione, e tecnicamente, qualcuno sta
dando il biberon al pupo tanto da farlo un po’ troppo grassottello…. e parlano
di snellire…..
Come riportato nel Bilancio dello Stato, le spese per la Difesa dello Stato
ammontano, per l’anno 2009, a 20.299.000.852€, così ripartiti:
Uffici di diretta dipendenza del Ministro: 25 M€,
spese di Bilancio ed Affari Finanziari: 998 M€,
Segretariato Generale della Difesa: 5.663 M€,
Esercito Italiano: 4.185 M€,
Marina Militare: 1.549 M€,
Aeronautica Militare: 2.342 M€,
Arma dei Carabinieri: 5.504 M€.[2]
Per l’anno 2010 invece la spesa è ammontata a 20.364.430.855,00 €, di cui
18.575.700.000 destinati alla difesa e sicurezza del territorio, 59.700.000.000
alla ricerca e all’innovazione, 77.300.000.000 ai servizi istituzionali e
generali delle amministrazioni pubbliche e 1.651.700.000 da ripartire. La spesa
totale rispetto all’anno 2009 è aumentata dello 0,3%
Compilato e scritto da Amonakur, nella seconda parte C. I.