Shardana e popoli della Sardegna

SEZIONE POPOLI DELLA SARDEGNA da Salvatore Dedòla - linguasarda.com. Uno dei lavori migliori e più esaustivi sull'argomento. Buona lettura.

ALCHITANI, Alkitani etnico. Secondo Pittau (OPSE 79) gli Alkitani erano gli antichi abitanti dell’attuale S.Nicolò Arcidano, e stavano nel territorio che arrivava sino alle pendici del Monte Arci (donde il nome dallo stesso Monte). É possibile, anzi diamo per certo che il territorio fosse questo. Ma intanto va detto che il Monte Arci ha un diverso etimo (vedi). L’etnico Alkitani trae invece trae l’etimologia dal bab. alku ‘regione lungo una riva’, cui s’aggiunse il tema etnico latineggiante -tani. Si chiamavano Alkitani perchè stavano anzitutto lungo la ‘riva’ del rio Mogoro, che oggi fa semplicemente sorridere ma sino a un secolo fa incuteva terrore per le catastrofiche piene improvvise. La bonifica della Piana di Terralba-Arborea partì anzitutto dall’imbrigliamento del torrente con una diga. Tre-quattromila anni fa il villaggio doveva ancora trovarsi, a un dipresso, presso le rive boscose di una specie di “fiordo”, che vogliamo così chiamare per comodità, ma era più che altro la valle incassata del rio Mogoro, la quale all’altezza del villaggio era quasi sulle rive del Golfo di Oristano, per il fatto che il mare entrava ancora profondamente nella pianura; oppure, che è lo stesso, era il torrente che con le sue alte bancate dava il nome di Alku alla regione. Il “fiordo” poi (o le bancate del rio), proprio in virtù delle piene del torrente, fu gradualmente riempito dagli apporti alluvionali, ed oggi possiamo notare soltanto un mare impantanato, il quale altro non è che la laguna di Marceddì, che oggidì si è peraltro ritirata, e sta relativamente lontana dal villaggio.

ARBÉRI cognome che Pittau crede equivalente a (b)arbéri 'barbiere' < cat. barber (Wagner). La sua proposta è inaccettabile. La base etimologica del cognome è antichissima e si riferisce agli abitanti delle aree montagnose e incolte, quelli noti come (B)arbaricini. Un tempo (2000 anni fa) quelli che furono pure noti come Ilienses ed ancora prima come Jolaenses erano chiamati propriamente, da quelli delle pianure, Arbéris, Arbérus, con la base accadica arbu(m), warbum 'incolto, selvatico', ḫarbu(m) 'territorio abbandonato, deserto, ossia non adatto alle coltivazioni' + suff. sardiano -ri, -ru.

BARBARICÍNI. È un composto sardiano con base nell’akk. arbu ‘(montagna) aspra, incolta’ + rīqu(m) ‘libero’ + akk. enu ‘signore, lord’ (stato costrutto arba-rīq-enu > [b]arbarikinu > barbaricínu). Il significato sintetico è ‘libero signore delle montagne’. È noto infatti che i Romani ebbero pieno uso soltanto dei territori di pianura o collinari, ma non di quelli pertinenti agli Ilienses, costituenti l’asse montuoso centro-orientale della Sardegna.

Altro possibile etimo per Barbaricini è arbu ‘(montagne) aspre, incolte’ + aria ‘vuoto’ + kīnu ‘legittimo’ (stato costrutto arb-ari-kīnu), col significato di ‘legittimi (sott. abitatori) del territorio vuoto e incolto’.

BÀRBARU. Per capire questo cognome occorre prendere in considerazione primamente il cognome Barbàrja, Barbària, il quale a sua volta è una variante fonosemantica del coronimo Barbàgia < *Arba-ria ‘territorio incolto (quindi adatto alle greggi)’, da bab. arbu ‘waste, uncultivated’. Ma occorre pure fare i conti con l’etnico Barbaricìno, il quale è un composto sardiano con base nell’accad. arbu ‘(montagna) aspra, incolta’ + rīqu(m) ‘libero’ + suff. sardiano -ínu, col significato sintetico di ‘(uomo) libero che abita sulle montagne’.

Bàrbaru è, con tutta evidenza, un cognome-aggettivale sorto nel medioevo per influsso latino, considerato che furono gli occupanti Romani a interpretare come ‘luogo dei barbari’ l’Arbària, che essi chiamarono per paronomasia Barbària (in sardo Barbàgia). Peraltro a questo cognome i Romani non dettero un significato spregiativo, anche perché presso di loro esisteva lo stesso cognomen Barbarus.

BARBÉRI cognome che Pittau interpreta come ‘barbiere’, derivato dal cat. barber. Egli cita fra l’altro il cognome Barberij citato nel 1410 nel CDS II 45. Ma è proprio questa citazione a non lasciare scampo, essendo impossibile che a circa 80 anni dall’invasione la Sardegna avesse già recepito nella propria onomastica dei cognomi catalani. L’etimologia è assai diversa. Barbéri è una variante fonica e semantica di Arbéri, ed entrambi sono varianti foniche di Bàrbaru (vedi), a sua volta semplificazione di Barbaricínu.

BARBÒNE, Barbòni cognome che Pittau crede accrescitivo e peggiorativo del cgn it. Barba; alternativamente lo crede un cognome propriamente italiano. Ma sbaglia.

Barbòne, -i non è altro che una variante fonosemantica dell’etnico Bàrbaru (vedi), a sua volta semplificazione di Barbaricínu.

CAMPITÁNI popolo che il Pittau suppone esistente in Sardegna in epoca romana, dal quale egli riesce a derivare il medievale Campitanu, onde il nome Campidanu attribuito alla nota pianura sarda. Non sono d’accordo sull’impostazione della questione. Se ammettiamo l’esistenza dei Campitani, il nome può essere spiegato attraverso il lemma Idánu. Poiché Campidanu era il territorio che dai bordi orientali della pianura di Cagliari s'espande ad est attraverso le montagne ed i litorali rocciosi (per intenderci, sin oltre Burcei e sino alle lontane balze costiere di Maracalagonis), non è valida l’origine da campu come ‘pianura’, almeno non come ‘pianura’ degna di questo nome. Peraltro va notato un altro toponimo che avvalora la nostra impostazione, ed è Capitana, località tutta poggi e colline, annicchiata tra le montagne di Maracalagonis, che declina sul litorale con suoli aspramente movimentati, attualmente vocati alla pastorizia, mai ai cereali o agli ortaggi. Attualmente i bagnanti conoscono Capitana per le villette che declinano sul mare, e le attribuiscono l’etimologia popolare di ‘capitano’, ma decenni addietro quel territorio era una classica énclave vocata alla viticoltura. Onde anch’essa va ricondotta a un originario Campu Idanu ‘territorio a vigneti’, da sardo ide ‘vite’.

CARÉNSIOI, Karénsioi è uno degli etnici connotanti uno dei popoli dell’antica Sardegna. Pittau OPSE 116 propone il parallelo col nome dell’antica Karia (regione dell’Asia Minore), in virtù della sua ipotesi dell’arrivo dei Sardi dalla Lidia. Ma il fatto che la Sardegna sia letteralmente pervasa dall’antica lingua accadica suggerisce di cercare in essa il significato del termine. Karènsioi infatti è soltanto un morfema antico-greco, ma la radice del nome è accadica, da kāru(m) ‘quay, port, quay-bank; port on river, on sea’. In antico assiro significò pure ‘colonia commerciale’: proprio così. Non è la prima volta che scopriamo, nel significato dei vari etnici sardi, la vera vocazione del popolo così denominato.

Ebbene, Karénsioi significa ‘navigatori’, propriamente ‘marinai, gente che gestisce porti e moli’. Fu proprio su questa radice nominale che gli accadici forgiarono parecchi termini, quali ‘supervisore del porto’, ‘caserma dei gabellieri’, ‘prezzo corrente’, ‘negozio’. Quindi pare di capire che questo etnico ci presenti uno spaccato interessantissimo dell’attività dei Sardi d’età pre-fenicia.

DIAGHESBEÍS antica popolazione sarda che fonti romane fanno individuare in territorio dell’odierna Posada. «Alcuni la identificano con gli Ilienses-Iolei-Troes di Mulargia-Alà dei Sardi. Aveva vicino gli Esaronenses o Aisaronenses e i Falisci» (Di.Sto.Sa. 525). Strabone (V, 2, 7) scrive testualmente, a riguardo della Sardegna, che «alla bontà dei luoghi fa riscontro una grande insalubrità: infatti l’isola è malsana d’estate, soprattutto nelle regioni più fertili. Inoltre queste stesse regioni sono continuamente saccheggiate dagli abitanti delle montagne che si chiamano Diaghesbéi (Διαγησβεῖς), mentre una volta erano chiamati Iolei».

Vale la pena di dare peso all’affermazione di Strabone, e se proprio vogliamo dare un senso al nome di questo popolo, che Strabone precisa essere quello che abita sulle montagne, non può essere altro che il popolo altrimenti noto come Barbaricino(vedi). Non basta tale individuazione. I Barbaricini con questo appellativo di Diaghesbéis sono stati identificati come popolo errante, anzi transumante. Infatti tale etnico può avere un senso soltanto se lo traduciamo col gr. dià-ghes-baíno ‘*trans-humo’, ‘vado errando di terra in terra’. Questo appellativo indica la caratteristica più importante dei Barbaricini, eterni pastori transumanti dalla montagna al piano e dal piano alla montagna.

ESARONÉSI. Tolomeo (III, 3,6) pone gli Aι̉σαρωνήσιοι nella lista dei 18 popoli che vivono in Sardegna. Il loro nome potrebbe derivare da akk. ašru(m) ‘regione’ + nēšū , nīšū ‘genti, popoli’, secondo il Semerano. Secondo Pittau (OPSE 179) occorre riferirsi al vocabolo etrusco aiser, che significa ‘déi’. Secondo lui, pertanto, l’etnico potrebbe significare ‘Religiosi, Pii’.

In realtà l’etnico greco, se scomposto bene nelle due componenti (Αἰσαρω-νήσιοι) significa, per la seconda parte, ‘isolani (νήσιοι). La prima parte, che in Teocrito indica un fiume italiano, Aἶσαρος (ed a seguirne le lusinghe andremmo lontani), è invece da accadico ešēru(m) che significa ‘fortunato, di successo (per i raccolti, i terreni, gli allevamenti, la riproduzione umana)’. Quindi Aἶσαρονήσιοι significa ‘isolani fortunati’, ‘(quelli dell’)isola fortunata’. E con ciò siamo perfettamente in linea con quanto favoleggiavano gli antichi sulla Sardegna. A ben vedere, la prima parte del composto è semanticamente vicina al lemma etrusco individuato dal Pittau.

HYPSITÁNI antichi abitatori dell’agglomerato poi chiamato Forum Traiani (oggi Fordongianus, provincia di Oristano). Le celebri acque calde, sulle quali i romani edificarono le bellissime terme ancora in piedi, furono chiamate da Tolomeo Aquae Hypsitanae. Quest'idronimo a prima vista sembra avere la base nel greco ‘ύψος 'sommità, altura, altezza', e con ciò dovremmo supporre che derivi dal fatto che in questa zona di confine i residenti erano tutti della stessa stirpe, a contatto diretto con i pastori che da quel punto in poi, al di là del limes, erano 'montanari'. In realtà la base etimologica è l’akk. ḫuppu(m) ‘buca, fossa, cratere’, ‘un genere di catino’ + ṣitu(m) ‘sorgente’.

KARÉNSIOI < akk. kārum ‘porto, molo’ (significa quindi ‘marinai, navigatori’). Vedi Carénsioi.

KORAKÉNSIOI «antica popolazione sarda che fonti romane fanno individuare in territorio degli odierni comuni di Ittiri e Villanova Monteleone. Dava o prendeva il nome dall’abitato scomparso di Coriaso» (Di.Sto.Sa. 465).

È un azzardo proporre un etimo per questo etnico. Ma è necessario. Occorre partire, a mio avviso, dal fatto che in Sardegna ci sono alcune sub-regioni caratterizzate dal fatto che le capanne, anziché essere costruite metà in pietra e metà in frasche, sono fatte integralmente in pietra, per intenderci, somigliano alle capanne pugliesi di Alberobello, le quali viste da fuori sembrano un forno, una fornace.

Potremmo quindi tentare di proporre questo etimo assumendo la caratteristica delle capanne che un tempo venivano costruite nella fascia di territorio che va da Bonnannaro-Borutta sino a Romana, molte delle quali ancora sopravvivono. La base etimologica è l’akk. kūru(m) ‘forno, fornace’ + kinšu ‘casa a base rotonda’.

ILIENSES (vedi Jolaenses).

JOLAENSES. Va fatta un po’ di chiarezza sulla commistione Il-/Iol- sempre esistita nella storia toponimica sarda. Dobbiamo anzitutto affermare che queste due radici sono nettamente distinte, e che i Romani avevano ragione a parlare di Il-ienses quando identificavano la maggiore tribù dei montanari sardi. I Romani sicuramente sapevano del termine Jol-a-enses, ma lasciavano che a gestirsi un tale lemma fossero i Greci. Conosciamo ormai tutto della tecnica paronomastica greca e della loro indefettibile capacità di riplasmare ogni toponimo sardo a proprio uso e consumo.

Nell’antichità greca la radice (v)iol- (che indica la ‘viola’) diede forma a nomi illustri, come quello di Jole (femminile di Jòlao) che nella mitologia gre ca era attribuito alla figlia del re Eurito. Di essa s’innamorò Eracle il qua le, adirato contro il re che gliela rifiutava, lo uccise e ne distrusse il re gno, portandola via. Deianìra, moglie gelosa dell’Eroe, si vendicò facendo indossare ad Ercole la camicia stregata donatale dal centauro Nesso. Ercole impazzì e si getto sul rogo. Pausania (II sec. e.v.) riporta un po’ ampia men te una tradizione secolare, secondo cui l’ateniese ’Ιόλαος, nipote di Eracle (Ercole), condusse a colonizzare la Sardegna 48 dei 50 figli avuti da Ercole con le figlie di Tespio. Accompagnati da altri Ateniesi, i Tespiesi sospin sero con le armi gli aborigeni e occuparono le pianure più fertili, fondando alcune città (X, 17, I). Altri storici, ad iniziare da Diodoro Siculo che scrive due secoli prima, citano un ’Iολαεῖον riferito alla migliore pianura sarda.

Ma qui la questione si complica davvero, perché in Sardegna le pianure e gli altri siti ancora oggi imparentati con questo nome sono parecchie decine. Va affermata intanto la parentela tra Jòlao e Iólia/Ólia (pronunciata Olla o [Parti]Olla ma anche Dólia [Dolia-Nova] per evidente fusione del coronimo col segnacaso de). S’imparenta il boscosissimo e selvaggio monte Olìa presso Monti, che non a caso segnava il confine tra l’antica Barbagia e la Gallura (esso non può, per ovvie ragioni geografico-ambientali, riferirsi all’olivo o all’olivastro, di cui manca traccia). Sembra ugualmente corretto imparentarvi i numerosi toponimi del tipo Olái (< Jola-i): si noti che l’ugaritico Ilu (Dio), derivando dal verbo ’alāh ‘ascendere, salire verso l’alto’, ha il suo participio proprio in ‘olāh ‘offerta’ (Baldacci).

È parimenti facile imparentarvi la piccola pianura d’Ilùne [Cala Luna], che crea pure una spiaggia e dunque un antico approdo. Il suo nome deriva dal fenicio Ilu ‘Dio’, con l’aggiunta del suffisso sardiano -ne, ed è dunque imparentato strettamente col nome della Perda Iliàna.

Semerano fa derivare il nome Jolao dal semitico Ilāh. Se una colonizzazione avvenne a suo tempo nelle pianure sarde (e successivamente nelle montagne), non la dobbiamo agli Eraclidi d'origine greca ma agli Eraclidi (Melkartidi) d'origine cananea. In questo caso, si capisce meglio la commistione Il-/Iol- (forma semitica e forma greca) e restano salvi i numerosi toponimi "joléi" della Sardegna nonchè la loro autenticità più antica, per nulla appannata dalla sovrapposizione del mito greco. Con tutta evidenza, il mito di Jolao fu rivivificato dai monaci bizantini “in salsa greca”, ed essi tramandarono sino ad oggi pressoché intatte tutte le forme in Jol-.

Tornando alle parentele, è impossibile non imparentare con la radice Jol- il nome dell’ex città (ora villaggio) di Ollolai, che sino al 6° secolo e.v. era stata la capitale dei Barbaricini (gli Jolaenses o Ilienses), sede dell’eroico re Ospitone che subì le imposizioni conversorie di papa Gregorio Magno (in realtà capitolando manu militari ad opera del braccio armato, il bizantino Zabarda: vedi GMS). Ollolai fin dal 1341 è stato scritto Allela, Allala, Ollala, ma è facile scorgere in Ollolai/Allala una iterazione rafforzativa, quasi sacrale, del nome (J)olái = ‘città di Jòlao. È infine corretto imparentarvi Olièna, dai residenti pronunciato Olìana/Ulìana (da [J]ulìana) e nientaffatto riferibile agli ulivi.

Sembrerebbe, a tutta prima, ovvio includervi il toponimo Giùlia/Giulìa/Giuglìa, che sembra richiamare il latino Jūlĭa, femminile di Jūlĭus (Giulio Cesare pretendeva di discendere direttamente da Jūlus figlio di Enea). Grazie all’equivalenza delle radici indoeuropee e romanze Iu-/Io-, Diu-/Dio-, Giu-/Gio-, scaturirebbe in tal caso l’identità radicale tra Jòlao e Giùlia ed anche Jūlus, col che si darebbe man forte alla tesi che gli Jolaenses (gli attuali Barbaricini) non fossero altri che i discendenti di Jūlus-Jòlao, mitico fondatore della stirpe sarda (o uno di essi). Giuglìa è un sito nel cuore del regno degli antichi Iolaenses/Ilienses: sulla carta, è il nome del grande prato appena sotto l’alta e precipite vetta del Corrasi (ai piedi della quale c’è Oliena). Ma intanto i residenti sostengono che il nome non indica il prato ma fa tutt’uno con la vicina parte cacuminale della montagna, ossia con quell’area molto accidentata culminante nelle varie vette “cornute”.

Fatti tutti i conti, però, occorre vedere in Giuglìa un radicale diverso rispetto a quello di Julìana; e nel mentre che sono conscio della piacevol ricostruzione qui fatta per Giuglìa, in realtà il toponimo non è altro che una forma sardiana con base nel sum. ḫulu ‘ruination’ + suff. territoriale sardiano in -ìa, ed indica proprio l’asprezza della parte cacuminale di questa montagna “sfrangiata”.

LESITÁNI. Pittau fa gravitare questa antica tribù attorno a Lesa (attuali Terme di S.Saturnino). È probabile che anche il Nuraghe Losa abbia preso il nome da Lesa e dai Lesitani.

LACONÍTI dicesi di un popolo stanziato attorno a Laconi in epoca romana. Il toponimo Laconitzi (Villagrande) sembra raccordarsi con Laconi, significando letteralmente ‘la cisterna della sorgente’, da akk. lakku ‘vasca’ + aram. itza ‘sorgente’, Il composto subì l’inserzione della -n- eufonica.

SARDÀNA, SHARDÀNA, ŠARDÀNA. A questo etnico calza male l’etimo proposto dal Semerano, dall’akk. šarru ‘re, gran re’ + dannu ‘potente’ = ‘Signore potente’. É incontrovertibile che questo etnico sia stato, a dispetto degli increduli, uno dei più famosi dell’antichità preromana. Il suo primo membro (šar-) ha parecchi etimi cui attingere per una traduzione valida. Oltre a quello del Semerano, abbiamo šar = ‘3600’ (indicato come numero indefinito, idea d’immensità); sarru ‘falso, criminale; ribelle’; bab. ṣar in ṣar maḫaṣu ‘colpire brutalmente, duramente’; šarāru(m) ‘andare in testa (nelle battaglie); incoraggiare’.

Per tutto quanto sappiamo attraverso i testi ugaritici ed egizi, uno qualunque dei termini mesopotamici addotti calza perfettamente alla fama che questo Popolo del Mare si è conquistata. Gli Shardana, come sappiamo, erano infatti, ad un tempo, in numero ‘indefinito’ (vedi testi di Ugarit); erano ‘odiati’ dagli Ugaritici e dal Faraone; indubbiamente erano ‘ribelli’ e quindi ‘falsi’ o ‘criminali’ agli occhi del Faraone; il re di Ugarit ed il Faraone concordavano nell’affermare che ‘colpivano brutalmente’ lasciando dietro di loro solo terra bruciata; infine dal Faraone sappiamo che quei valorosi ‘andavano sempre in testa nelle battaglie’ in qualità di truppe scelte.

Il termine Šardana (ŠRDN), rinvenuto nella celebre stele di Nora (oltrechè nei testi egizi), nel mentre che è da tradurre come ‘Sardegna’, è pure l’omofono del suo etnico (Šardana = ‘abitante della Sardegna’). La Fuentes-Estanol, per il fenicio, dà Šrdn per ‘Sardo’ e Šrdn’ come gentilizio ‘Sardo’ ma anche Šrdny (possibile pronuncia Šardany), Šrdnt ‘Sardo’ come nome proprio.

Nei testi egizi gli Shardana sono registrati come Šarṭana, Šarṭenu, Šarṭina (EHD 727b). Altre volte nei testi egizi sono indicati proprio come Šarṭana n p iām ‘gli Shardana quelli del mare’ (per n EHD 339a, per p EHD 229a, per iām EHD 142b). Wallis Budge li considera provenienti dalla Sardegna. Lo stesso pensano gli archeologi ed i filologi egiziani, assieme alla maggioranza degli studiosi di scuola inglese e americana.

Dal sumerico ricaviamo šar ‘splendido’ + dan ‘puro, limpido’ (šardan), da tradurre come ‘Gli splendidi’, ‘I purissimi’, ‘Gli Immortali’ o simili. Peraltro tale etnico non poteva avere altra spiegazione, visto che gli stessi Sumeri chiamavano la Sardegna Sardō, da sar ‘giardino’ + dū ‘tutto quanto’, componibile in sar-dū ‘tutta un giardino’: come tale la Sardegna doveva essere vista dai popoli abituati alle grame fioriture dei deserti.

SARDUS. Secondo Pausania, Sardos libico è l’eponimo dei Sardi di Sardegna. Per l’ascendenza dobbiamo citare però l’omerica Σάρδεις, Sárdeis in Anatolia (Lidia). Il Semerano afferma che la denominazione originaria di Sardeis è Sfard, persiano Saparda, ebraico Sephārad. Questo lemma è collegato anche al nome del villaggio sardo Sàrdara.

Pittau (OPSE 235) propone il parallelo tra l’etnico antico Sardiános e l’etrusco-toscano Sartiano (= Sarteano) nonché Sartiana. Indubbiamente Pittau su basi linguistiche fa intendere ciò che peraltro già sappiamo, grazie a lui stesso, ossia che una parte dei Sardiani, una volta trasferitisi in Etruria, non poterono fare a meno di lasciare, in qualche villaggio, il proprio nome d’origine, così come fecero in Corsica, dove lasciarono il toponimo Sartène.

Ma su Sardus possiamo accampare pure qualche base sumero-semitica.

Le agglutinazioni sumeriche šar-du si prestano purtroppo a traduzioni collocabili ciascuna in un diverso campo semantico: quale šar ‘designazione della vacca’ + du ‘ammucchiare’ (come dire ‘quelli che allevano tante vacche’); oppure šar ‘scannare’ + du ‘dilagare’ (come dire ‘coloro che invadono e scannano’); oppure šar ‘essere perfetto, rendere splendido’ + du ‘suonare’ (come dire ‘splendidi musicisti’); a quest’ultimo proposito ricordo che sardium nell’antico assiro e ‘un canto di benedizione’.

Anche in accadico abbiamo più di una occorrenza. Prima occorrenza: abbiamo visto che sardium in antico assiro e ‘un canto di benedizione’, ed ha evidenti rapporti col sacro. Seconda occorrenza: si è sempre parlato della sardìna come pesce relativo alla Sardinia (e su ciò non c’è obiezione) ma nessuno ha mai messo in relazione quest’ittionimo con l’antico assiro sardum ‘impacchettato, appesantito’, segno evidente che proprio quel pesce era soggetto già da allora ad essere conservato sotto sale in ceste di legno o di asfodelo, e che dunque l’attuale sardìna deriva l’etimo dal concetto accadico di “impacchettamento”. Terza occorrenza: Sardus e Sardinia possono avere la stessa base linguistica del lemma Šardana (vedi), da akk. šarru ‘re’ + dannu ‘potente’ (OCE 591). Non possiamo dimenticare che la radice Sard- era nota ed usata un po’ in tutto il Vicino Oriente. L’ultimo nome noto è Sarduri II re di Urartu, capo di una coalizione di regni neo-ittiti che perse la guerra di fronte al re-usurpatore assiro Tiglat-phalasar (744-727). Anche gli Ebrei conoscevano la radice citata. L’ebreo Sèred סֶרֶד (Gn 46,14 e altri passi biblici) era uno dei tanti che si trasferirono da Israele in Egitto.

Come si vede, c’è una pletora di occorrenze delle quali soltanto una sarà attendibile; o può esserlo a un tempo più di una. Ma, occorrono dei “distinguo”. L’affermazione di Pausania che Sardus libico è l’eponimo dei Sardi, aiuta a mettere in relazione Sardus-Sardi ma non porta acqua all’approfondimento della ricerca etimologica. Parimenti, non aiuta a trovare l’etimologia il sapere che i Sardi possono derivare il proprio etnico dalla citta lidia Sardeis. Peraltro, le due attestazioni storiche sembrano escludersi a vicenda.

Con l’accadico e le lingue del Vicino Oriente poniamo invece una base linguistica di maggiore solidità, anzi quattro basi su cui argomentare, ma le quattro basi a loro volta non possono non partire dalla celebre attestazione della Stele di Nora, dove si legge lo storicissimo e incontrovertibile vocabolo Šardana (da intendere come isola e quindi come nome d’origine).

La Sardegna è stata l’unica regione dove si estraevano pro di giose quantità di sale. Che ne facevano, i Sardi, di tanto sale, se non lo usavano nemmeno a conservare le sardine che da loro presero il nome? Altro che, se lo usavano! Chiaramente, sardina è collegata al lemma acca dico sardum. Quanto a Sardus, che esso sia almeno da 3000 anni l’etnico dell’uomo sardo, è anch’esso incontrovertibile. E pure qui ci ritroviamo tra le mani un termine accadico: non si può infatti respingere la forza dell’evidenza, che cioè tutti i termini riferiti alla Sardinia ed a Sardus hanno la base accadica. È da mettere nel conto pure l’apporto di sardium in quanto ‘canto di benedizione’, sul quale non c’è altro da argomentare se non che, evidentemente, questo modo di salmeggiare era tipico dei sacerdo ti dell’isola di Sardinia, e che furono proprio gli Šardana a farlo conoscere nel Mediterraneo.

Ma come la mettiamo, infine, con šarru-dannu = ‘re po ten te’, proposto dal Semerano? Che valore gli diamo? È veramente l’etimo degli Šardana? Forse sì. Può darsi infatti che gli Egizi, i quali per primi usarono questo etnico, accettassero proprio tale significato accadico, intendendo quindi Šarṭana nel senso di ‘guerrieri illustri, re potenti’. Peraltro fu un uso mediterraneo quello di catalogare i popoli erranti e guerrieri nella categoria logica suprema, quella riservata ai Re. Gli Hyksos furono tra quelli, furono i ‘Re pastori’, così come lo furono pure tutti i grandi proprietari di greggi che colonizzarono le montagne della Sardegna, i quali lasciarono il loro appellativo nei toponimi in Rì, -Rì: vedi per tutti Arcu ‘e Rì (Arquerì) che ha la base nell’akk. (w)arḫu ‘passo, valico transitabile’ (v. urḫu ‘way, path’) + ebr. rē’û = ‘pastore’, ed anche ‘re pastore’ (come dire: patriarca, padrone di mandrie).

Non si può però chiudere l’argomento di šarru-dannu senza dire qualcosa pure sul termine ebraico Dan. Ma a proposito rimando al lemma Šardana.

SASSU. Questo cognome manca nel Wagner ma c’è nel codice di S.Pietro di Sorres e nel CDS II 58/2, 60/1. Ciò è segno di alta antichità. Pittau (CDS) lo fa derivare dal sardo sassu ‘sabbione’ < lat. saxum. In realtà deriva dal bab. sassu ‘base, pavimento’. Va in ogni modo ricordato che Šašu erano chiamati nel Nuovo Regno egizio i nomadi del Sinai (1540-1070 a.e.v.), onde forse è da qui che deriva il cgn. sardo Sassu. In tal caso, avremmo una ulteriore prova, per via indiretta, del "ritorno degli Shardana" in terra sarda. Infatti la teoria che gli Shardana d'Egitto si fossero almeno mischiati agli Hyksos, prima che questi rifluissero verso il Sinai, ha parecchi sostenitori. Vedi al lemma Hyksōs.

TIRRENI. Per gli antichi Greci i Τυρςηνοί provengono dalle alture dell’Athos, le quali figurarono da loro occupate. Secondo Erodoto (I, 7; I, 94) Tyrsenos, figlio di Atys, avrebbe guidato i Lidi in Italia e avrebbe dato nome ai Tirreni. Ma c’è pure la terza citazione, quella di Strabone (V, 2,7), secondo cui, arrivando in Sardegna, gli Joléi, si mischiarono con gli abitanti delle montagne che si chiamavano Tυρρηνοί. Secondo Ellanico, i Pelasgi sono stati designati col nome Tυρσηνοί dopo il loro arrivo in Italia. Le quattro attestazioni, a ben vedere, non si contraddicono ma vanno interpretate.

Anzitutto, il popolo etrusco, da qualcuno chiamato Tirreno, non gradì mai quell’appellativo, pago del più antico rāš-, di Rasenna, da accadico rēšu ‘head, top quality’, cananeo rāš, ebraico rōš ‘capo, principe, leader’ + akk. enu ‘lord’, col significato di ‘signore-principe’. Tirreni, da altri interpretati “erranti”, è più consono ai Tirreni della Sardegna (vedi Strabone), perché in tal caso l’appellativo sarebbe semanticamente identico a quello di Diaghesbeís (= *Transhumantes), come in seguito i montanari sardi furono chiamati.

L’appellativo Tyrrèni può essere spiegato in verità come un composto creato sulla base dell’aramaico tur ‘monte’ + accadico-sumerico enu ‘lord’ e si riferisce a Tiro, la quale stava sopra un alto scoglio. Il sardiano Tur-enu (poi lat. Tyrrenus) significò quindi, letteralmente, ‘signore di Tiro’, ‘dominatore, abitante di Tiro’. È quindi chiaro che i Tyrr-eni non erano altro che i Tyr-i, gli abitanti di Tiro, ossia erano i Šardano-Fenici che ritornavano ad abitare o frequentare la madrepatria, la Sardegna, dopo l’epopea dei Sea Peoples.

In ogni modo, non possiamo omettere di citare il Tirreno proveniente dalla Lidia. Secondo il confluire di fonti quali Dionigi d’Alicarnasso 1,27, Erodoto I, 7; I, 94, Nicola Damasceno FGrH 90, 15, Gige nonno di Atys, prima d’inaugurare la lista dei re lidii in Sardi, fu tiranno a Tύρρα. È da qui che si giustifica il nome di Tyrrhenos figlio di Atys, che letteralmente significò ‘Signore, dominatore di Tyrrha’ (nome di nostalgia). È pure da qui che deriva il cognome sardo Turra. Non va quindi sottovalutata l’importanza della citazione di Erodoto e degli altri autori. Quel Tirreno proveniente dalla Lidia avente lo stesso nome dei nostri Tirreni, crea confusione. Ma secondo il mio modo d’intendere, il concorrere del nome lidio-accadico Tirreno inteso come ‘Signore, dominatore di Tyrrha’ è una conconcomitanza fortuita che non inficia il fatto che i Tirreni che diedero il nome al Mare Tirreno furono gli Shardana-Fenici tornati da Tiro.

UDDADHADDAR. Quest etnico fu letto in agro di Cuglieri su una iscrizione confinaria latina recante la seguente frase: TERMINUS QUINTUS UDDADHADDAR NUMISIARUM, che può essere tradotto di primo acchitto come segue: Quinto cippo terminale degli Uddadhaddar delle Numisie. La frase, da me verificata presso il Museo di Cagliari, è scritta in un latino pulito, ma resta da chiarire anzitutto il significato di Uddadhaddar.

Anzitutto va precisato che il terminus quintus è un cippo di delimitazione territoriale: il ‘quinto cippo’. Forse ce ne furono degli altri. Nei tempi andati le delimitazioni territoriali avvenivano in tale modo, legalmente riconosciuto, in uso anche presso i Sumeri ed i Babilonesi. Ancora oggi nei villaggi sardi ci sono degli esperti in grado di individuare tutti i cippi di confine. Evidentemente, ci fu un preciso accordo giuridico affinchè gli Uddadhaddar avessero un territorio di pertinenza.

Il lemma Uddadhaddar ha il suffisso tipicamente sumerico (-dr in sumerico è una semplice consonante finale sostituente spesso la -d, e al tempo dei Romani fu letta evidentemente come -dar). Per Uddadhaddar l’unica base valida è la lingua sumera, dove abbiamo u-dada-dar (u ‘pastore, pecoraio’ + dada ‘ostile’ + dar ‘disperdere’ (of crowd: break up), col significato di ‘pastori ostili dispersi’.

Quanto a Numisiarum, espresso col tema latino, se ci attenessimo al nome della gens romana di cui i dizionari dànno il maschile Numisius, sembrerebbe che gli Uddadhaddar siano appartenuti a un latifondista della gens Numisia (come schiavi?). Ma perché il plurale femminile? Perchè certamente Uddadhaddar, sentito latinamente come femminile, esprimeva già di per sé un plurale (i Latini non declinavano mai i nomi semitici). Poiché l’etnico Uddadhaddar è sumerico, anche Numisiārum deve avere la base sumerica, anche perché l’uso del latino nella parte radicale darebbe seri problemi. Alcuni traducono Numisiarum ‘della Numidia’. Ma è scorretto: ci saremmo aspettati allora Uddadhaddar Numidiae ‘U. della Numidia’. Se invece si dovevano citare delle donne nùmide, ci saremmo aspettati U. Numidārum. Se poi sostituiamo il lemma con una parola greca, questa deriverebbe soltanto da νομεύω ‘fare il pastore, pascolar le greggi’, νομή ‘luogo del pascolo’, νομῆες ‘pastori’, da cui νομάς - νομάδος ‘nomade, che erra per mutare pascolo’: ma questi termini greci hanno basi semitiche, da akk. numītu ‘pasturage’, numû ‘wasteland’, sum. numun ‘erba’, numun ‘moltiplicare’. Eccoci dunque alla traduzione giusta.

Aggiungendo al sintagma u-dada-dar il composto sumero-accadico in stato costrutto numi- + šiyû ‘forza’, siyû ‘a plant’ (Numi-si-ārum), abbiamo il significato di ‘pastori ostili dispersi tra i pascoli’. Si vede che a questa gente fu negata l’opportunità di risiedere entro la città di Cornus e che essa fu relegata a un destino pastorale, quale tributaria del commercio cornense.

Esplicando il sintagma sintetico TERMINUS QUINTUS UDDADHADDAR NUMISIARUM, abbiamo quindi: “Quinto cippo dei pastori ostili dispersi nei pascoli (del vicino Montiferru)’. È facile immaginare cosa era successo in quel periodo. Gli U (pastori) erano dada (ostili: alla città punico-romana di Cornus; la assalivano con le bardàne, ossia con cavalcate guerrigliere). Per tale ragione furono dispersi dalla truppa romana e costretti a vivere sul Montiferru selvaggio, con reciproche garanzie confinarie.

                                                                                                   

                                                                                                 SEZIONE EBRAISMO IN SARDEGNA e lingue connesse

Alcune considerazioni sui termini ebraici presenti nella lingua sarda
Migrazioni di Ebrei in Sardegna
Termini sardo-ebraici
Termini denigratori inventati contro gli Ebrei della Sardegna
I cognomi ebraici della Sardegna

       ALCUNE CONSIDERAZIONI SUI TERMINI EBRAICI PRESENTI NELLA LINGUA SARDA

In Sardegna i Fenici non sbarcarono mai in aurea solitudine ma commisti ed affratellati ai pastori della Galilea: la base della dimostrazione sono i numerosi lemmi sardi esclusivamente ebraici o intrisi d’ebraismo, che non possono essere piovuti dal cielo.

Il nome del sito di Betilli (agro di Sàdali) ha riscontro esclusivo in bet-El (nome ebraico del luogo sacro rivelatosi ‘casa di Dio’ e contrassegnato da un cippo, da un bètilo). Canahini, l’antica curatorìa gallurese del territorio di Luogosanto, deriva direttamente dall’ebraico Canahan. Massada, villaggio sardo ora estinto, non può essere disgiunto dalla celebre Massada ebraica caduta nel 73 e.v. (questo è forse l’unico termine, dopo Sìnnai, Sini, Segossìni, attribuibile con certezza agli Ebrei del 19 e.v. ed agli scampati che li seguirono).

Sìnnai (v. Toponomastica Sarda 488) non può essere un’invenzione peregrina dei Sardi: è un segno d’inestinguibile nostalgia lasciato da un gruppo ebraico. Sini è un allomorfo di Sīnai. Segossìni è da accadico seḫrum ‘piccolo’ ed ebraico Sīnai (= ‘piccola Sìnai’): ed infatti tale villaggetto stava affiancato al villaggio maggiore di Sìnnai. Il villaggio di Sìsini (agro di Suelli), un tempo pronunciato Sisìni (vedi la pronuncia del centro-nord Sardegna) deriva dall’ebraico Seh Sīnay (uno dei nomi di Yahweh, = ‘quello del Sìnai’).

Hafa, nome antico del villaggio di Mores, ha come referente Jāfa, nome di luogo della Galilea.

il villaggio Romàna, se lo ripuliamo dall’etimologia popolare che lo considera un aggettivale di Roma, appare per quello che è, il nome di un paese nato in luogo alto, dall’ebraico rūm ‘altezza, altitudine’, rōmēm ‘elevato’ (non a caso Romàna è l’unico paese sardo ad essere stato costruito sul cocuzzolo di un monte calcareo, anzichè alla base dove scaturisce l’acqua). Altra menda si riconosce nel Pecorino Romano, il formaggio più celebre della Sardegna, prodotto originariamente nella sola Barbagia, che i dotti ritengono introdotto in Sardegna dalle legioni romane nel 238 a.e.v., mentre significa semplicemente ‘pecorino delle alture, pecorino prodotto dai Barbaricini’, e deriva dall’ebraico rūm, rōmēm.

Bruncu Salàmu è una cima di Dolianova presso cui sgorgano le fonti di S.Giorgio, considerate terapeutiche da tempo immemorabile. Ha come referente il babilonese šalamu ‘pace, benessere, diventar sano’, identico all’ebraico šalom ed al toponimo Jeru-šalem.

Galilla, antico nome di Villasalto, ha il diretto ascendente in Galilea, e così la miniera d’argento di Sa Lilla, corruzione di Galilla. Per conoscere il popolo montanaro dei Galilla, leggi la celebre Tavola di Esterzìli (in T.S. 71-72, e qui riprodotta). Caillottu è il soprannome che quelli di Armungia e Villasalto si appioppano a vicenda, intendendolo oramai come cunillottu ‘coniglio, vile’, mentre è l’aggettivale antico della tribù dei Galilla, alla quale appartenevano.

Cùccuru S’Arráxu (agro di Sìnnai) è un pleonasmo, un nome ripetuto (nei toponimi sardi succede spesso, quando si perde il significato di uno dei termini), e significa ‘cima della cima’, dall’ebraico qōdqōd ‘sommità del cranio’ (pronunciato già nell’antico sardo cùccuru da un *cùccudu) + rōš ‘capo, testa’, che ha dato nel nord-Sardegna rasu e nel sud arrásu o arráxu. Il nome del paese di Giba viene dall’ebraico gib’a ‘gobba, elevazione’.

I golléis sono le caratteristiche ambe basaltiche del territorio della Baronìa, non molto elevate, dall’ebraico gūllā ‘coppa’, forse per il loro profilo caratteristico. Anche Su Gologòne, la risorgiva più potente della Sardegna, ha medesima radice. Qui il semantema è azzeccatissimo, ed ha l’accrescitivo -òne rafforzato dall’inserzione eufonica della -g-.

Tanto per restare in tema idrico, citiamo il demone sardo dell’acqua, Maimòne, dall’ebraico maim ‘acqua’.

Il ricordo della frutta c’è nei due toponimi Pirri e Pirréi, che ricordano i termini ebraici perrī ‘frutto’, pirreī ‘frutto (di un albero)’.

Il nome del paese di Oráni deriva direttamente da quello della divinità astrale cananea Horam, Horanu, e così pure il vicino oronimo Gonáre, oggetto di metatesi per *Horáne.

Bidda Mores, dall’ebraico moreh ‘piogge autunnali’, era un vicus nascosto tra le forre ricche d’acqua, nei monti di Sarròk. Dopo la siccità estiva, le piogge autunnali rivitalizzavano il territorio, ed il nome diventava tutto un programma.

Silki, un territorio ora inglobato nell’abitato di Sassari, celebre per il santuario romanico e per la rinascita della cultura sarda (oggi è più noto per il marchio dell’olio d’oliva), deriva dall’ebraico Silchi. Monte Sirái, celebre altura presso Carbonia edificata dai Fenici, ha i referenti nell’assiro Ṣuru, fenicio Ṣr, ebraico Ṣôr e significa ‘Tiro’, o meglio ‘(città dei) Tirii’. Stessa origine ha Villa-Sor, che riproduce pari pari il termine ebraico Ṣôr = ‘Tiro’, e significa quindi ‘città di Tiro’. Mentre Sorres, l’antica diocesi celebre per la sua abbazia e per le bianche falesie, non significa ‘sorelle’ (etimologia popolare) ma deriva direttamente dall’ebraico Ṣūr ‘roccia’.

Succa, che è pure un cognome, deriva direttamente dall’ebraico sukka’ ‘tenda’. Il nome del paese Talàna deriva dall’ebraico talā ‘essere variegato, a macchie’, con riferimento al territorio cosparso di foreste miste a pascoli. S’Arcu Artilai (il ‘passo Artilài’) sul Gennargentu, agro di Desulo, deriva dall’aramaico talmudico ’artilai ‘nudo’, così chiamato non solo perché quasi tutti i passi montani erano disboscati per consentirne il controllo, ma principalmente perché questo passo glabro era veramente strategico, essendo il punto di contatto tra i pastori sardo-barbaricini con quelli di Fonni (Sorabile), gente esclusivamente romana, interessata a tenere relegati i Barbaricini nella loro “riserva”.

Arcuerì è, nella seconda parte del termine, prettamente ebraico, da accad. (w)arḫu ‘varco, valico’ + segnacaso sardo de, ‘e = ‘di’ + rì da ebraico rē’û ‘pastore, re pastore’: il sintagma significa quindi ‘il passo dei pastori’ (era un passo strategico, adibito alla transumanza). Uguale termine si ritrova in Tedderì (‘altura dei pastori’) ed in altri toponimi pastorali, oltrechè in toponimi come Costa Réi = ‘la costa dei pastori’, e così via. Arcuéntu, il monte sopra Montevecchio, a sua volta ha subìto una corruzione: originariamente doveva essere *Arcubetu, da accad. arku ‘alto’ + ebraico bait ‘casa’.

Anche Benetutti è ebraico nella seconda parte, originato dal sardo bene, benas ‘sorgenti’ + ebraico takat ‘sotto, al disotto’. Il sintagma è riferito alle celebri fonti calde che stanno a valle (al disotto) del paese. Simile è l’esito di Teletottes (Supramonte di Urzulei), toponimo del sito dove il fiume della celebre Codula di Luna sprofonda sotto i calcari (da ebraico peleg-takat ‘corso d’acqua che va sotto’).

Tola (che è pure un cognome) ha il referente diretto nell’ebraico Tolā‛ che è un antroponimo notissimo (1Cr, 7/1 e passim) ma significa pure ‘tinto di scarlatto’, corrispettivo del greco φοινικός ‘quello della porpora, ossia fenicio’. Questo può essere un nomen professiōnis: quasi a indicare con appellativo ebraico (usato dagli Ebrei stabiliti in Sardegna con la prima ondata) chi tra i compagni Fenici imbarcava i muricidi sardi alla volta di Tiro (leggi T.S. a pag. 56, e leggi infra).

Il nome del paese di Teti deriva dall’ebraico tīt ‘fango’ e lega il suo nome a quello di tanti paesi sardi riferiti al fango (Paùli, Paùli Gerréi, Ovodda etc.), legati alle sorgenti fangose, ai siti umidi (ma dotati di capacità di sgrondo), dove normalmente si preferiva edificare il villaggio.

Torralba (Turarba) non significa – come i dotti pretendono – ‘torre bianca’ ma deriva dall’aramaico tur ‘altura’ + babilonese arbu ‘incolto’, e significa appunto ‘altura incolta, inadatta all’agricoltura’ (ed è in tali siti che si edificavano i villaggi, lasciando le terre buone per le coltivazioni).

Tsìppiri in sardo è il rosmarino, dall’ebraico sapīr, safīr ‘lapislazzuli, zaffiro’, a causa del colore dei fiori di questa pianta aromatica. L’abitato di Zuri deriva il nome dall’ebraico Zur (1Cr 8,30). Zurru, che è pure cognome, deriva dall’ebraico Tzur (1Cr 2,45).

Zìu, Otzìo (che indica dei prati irrigui) deriva dall’ebraico zuv ‘flusso, getto, zampillo’, ovvero da Ziu, Zio (secondo mese: aprile-maggio, che è quello della fioritura).

Urthàddala (Pischina Urthàddala) è un nome tricomposto del Supramonte di Baunéi, attribuito ad un laghetto profondo originato in un inghiottitoio otturato, situato dentro uno scenografico grottone. Deriva dall’accadico ḫurru ‘buca, cavità’ + ugaritico ṭa’t ‘pecora’ + ebraico dalu ‘tazza’ = ‘vascone per l’abbeverata delle pecore’.

Caddozzu, aggettivo campidanese per ‘sporco, lurido, sudicio’, è il perverso risultato della pervicace azione di smantellamento delle antiche religioni da parte dei preti bizantini. Deriva dall’ebraico qadòš ‘martire, santo’. E per restare nei termini sacrali, citiamo la valle di Villa Scema (agro di Villacidro), dall’ebraico Shemah Yisrael, invocazione liturgica quotidiana.


MIGRAZIONI DI EBREI IN SARDEGNA

In T.S. ho affermato che gli Ebrei arrivarono in Sardegna con la prima ondata fenicia intorno al 1000 a.e.v. Non mi trovo isolato in questa segnalazione, che peraltro sono in grado di dimostrare. In ogni modo, anche Giovanni Spano (Storia degli Ebrei in Sardegna, 1875) ricorda che vari autori nei secoli scorsi congetturarono che gli Ebrei, quand'erano un popolo libero, mandarono per il mondo parecchie colonie.

"Strabone, parlando di essi, dice che non si trovava città del mondo dove non vi avessero stabilita la sede, godendovi di libertà civile, ed erano i più ricchi, perchè i più industriosi. Per la qual cosa vi furono dei Re, come un Antioco, che li richiamavano per servire d'incitamento e di esempio ai loro sudditi nel lavoro" (Spano 2).

Cananei. Per cananea intendo una lingua parlata da popoli che abitarono nella fascia compresa tra il deserto e il mare, estesa dalle oasi di Gaza sin oltre le foci dell’Oronte, dove cominciava l’impero hittita. Parlo di popolazioni cananee in senso lato (non diversamente sono note nella storia), e stricto sensu le definisco a un tempo prefenicie, fenicie ed ebraiche. Non interessa invece la terza popolazione locale, i Filistei, di lingua non-cananea, ch’erano uno dei Popoli del Mare insediatosi a forza su quelle coste al tempo in cui i Lidi occupavano le coste sarde. La lingua filistea era già fusa con quella cananea intorno al 1000 a.e.v., una fusione avvenuta con relativa rapidità perché i Sea Peoples, per quanto avessero dialetti diversi o complementari, in generale fruivano d’una parlata pan-mediterranea il cui collante era stato, e rimase ancora dopo le loro imprese, anzi lo era ancora intorno al 1000 a.e.v., la lingua accadica.

Gli antichi abitanti della Terra di Canaan ammettevano d’essere cananei, e per tale etnico Gerhard Herm propone la base accadica kinaḫḫu ‘porpora’. Se vogliamo parlare di Fenici (letteralmente 'purpurarii'), da φοίνιος ‘ros siccio, rosso cupo’, diciamo che essi non si riconoscevano nell’appellativo forgiato dai Greci: erano chiamati così per essere i monopolisti della ‘porpora’; ma con φοι̃νιξ i greci indicavano anche la ‘palma’, in virtù dei grappoli di datteri che raggiungevano il colore rosso intenso.

Il territorio costiero del nord fu chiamato Fenicia primamente da Omero (Odissea, 4,83), ai cui tempi era occupato da città-stato dedite alla marineria. Ma i "fenici" invece prendevano il proprio etnico dal nome di quelle città (erano conosciuti infatti principalmente come Tirii o Sidonii, dalle città più importanti), non dalla porpora, che in effetti neppure producevano. Infatti le coste della Fenicia non avevano lagune degne di nota e dunque non potevano produrre tanto murice, che invece veniva dalla Sardegna grazie al fatto che quest'isola è l'unica del Mediterraneo ad avere una enorme quantità di lagune da cui si estraevano - e ancora s'estraggono - prodigiose quantità di murici (i più prelibati sono is buccònis). È pure risaputo che la Sardegna è stata da sempre grande produttrice di corallo rosso (oggi oramai la preda zione è quasi completata), per la raccolta del quale in ogni epoca sono arrivate flotte specializzate di ūrīnātōres (palombari). Non è un caso che la primitiva Karali (Cagliari) prendesse il nome babilonese proprio dal corallo (karallu = ‘gioiello’).

La precisazione su chi veramente producesse la porpora nel Mediterraneo viene da Leonardo Melis (Shardana i Popoli del Mare, passim), ed è arduo confutarla. Egli rammenta inoltre che la porpora era cono sciuta dagli Ebrei molti secoli prima dell'avvento dei Fenici (Esodo XXXV, 30,35). La tribù di Dan non solo conosceva la porpora 3-4 secoli prima dell'av vento dei Fenici, ma la manipolava creando bellissime stoffe. Poichè le dodici tribù d'Israele furono formate ancor prima della partenza dall'Egitto, e poichè Dan costituiva non solo la tribù degli artigiani ma pure quella dei guerrieri (la retroguardia, durante l'Esodo), c'è da riflettere su chi fossero realmente questi personaggi, che noi soltanto per prudenza non colleghiamo al popolo Shardana, ugualmente stanziato sul Delta accanto a (o fuso con) gli Ebrei all'epoca degli Hyksos. Con questi ultimi gli Shardana erano certamente simbiotici ed ancor più lo erano gli Ebrei.

Il capitolo 18 di Giudici narra della ricerca di territorio in terra di Canaan da parte della misteriosa tribù di Dan, dopo che il precedente territorio assegnatole non era stato conquistato. Premuti dai Filistei, si stabilirono infine verso Sidone, a Laiš (chiamata in seguito Dan), della quale avevano passato a fil di spada tutti gli abitanti. Sui paralleli impressionanti tra i Daniti e gli Shardana il Melis (SPM 90-91) dà un proprio resoconto, cui rimandiamo, che non siamo tenuti a condividere.

Che alcuni tratti socio-culturali del popolo ebraico fossero maturati durante la permanenza nel Delta, è ancora il Melis a scommetterci (SPM, 86-87), a cominciare dal monoteismo professato da Amenofi IV (Akh-en-aton) che dagli Ebrei fu traslato e perfezionato nella propria religione. È più difficile invece accettare che Amenofi avesse creduto in un solo dio per merito degli Šardana.

Dopo essersi stanziato nell'entroterra cananeo, il popolo ebraico ebbe a un certo punto il sopravvento contro la presenza dei Filistei (dalla cui parlata indoeuropea ricevette forse qualche raro influsso), ed in epoca storica control lava un territorio (comprese le coste) esteso da Gaza sin oltre la Galilea; solo più a nord, ma esclusivamente lungo la fascia costiera, si trovavano i Fenici propriamente detti, quelli delle città-stato “schiacciate” tra mare e montagna. La lingua fenicio-punica è il cananeo della costa, l'ebraico è il cananeo dell'entroterra. Ma qual era in realtà la lingua comune di questi popoli contigui? Per capirlo, dobbiamo indagare anzitutto sull'origine dell'alfabeto.

Scavando negli archivi di Ugarit si è scoperto che i fenici di questa città (e dell'hinterland) erano stati paradossalmente gli inventori non dell’alfabeto scritto con le "lettere fenicie" ma d'un alfabeto scritto con il sistema sumero dei cunei. Cos'erano, allora, le lettere fenicie usate in tutta la Palestina in competizione col cuneiforme di Ugarit? Anch'esse, come il murice, non erano autoctone della costa fenicia.

Erodoto (Storie, V, 58) ipotizza che l'alfabeto fosse arrivato ai Greci grazie a Cadmo, originario della Fenicia. Ma Platone lo contraddice, colle gando le lettere fenicie a un'anteriore fonte egizia e attribuendone l'inven zione a Thot, il dio della sapienza con effigie da scimmia. In realtà il potere della scrittura era tale ch'essa sembrava invenzione troppo profonda per essere il prodotto dell'uomo. La nozione del dono divino fu così forte da essere stata recepita nientemeno che dall'Enciclopedia Britannica del 1853. Ma perchè quest'origine egizia dell'alfabeto? Prima della decodificazione dei geroglifici egizi e delle relative forme corsive (ieratico e demotico) niente consentiva di considerare la scrittura egizia all'origine delle lettere alfabetiche. Ma così era, in realtà. Il corpo sacerdotale egizio aveva operato nei millenni una mirabile conservazione d'un sistema grafico che aveva usato come potente sistema di dominio sul popolo. Ma la storia non dipendeva soltanto da loro. Inseriamo l'intermezzo degli Hyksos, ed è fatta. Quei re-pastori (ca. 1700-1550 a.e.v.) che molti ricercatori recenti identifi cano in tutto o in parte con la massiccia presenza ebraica del periodo di Giuseppe, furono quelli che, durante il loro dominio sul Delta, s'appro fit tarono evidentemente del sistema grafemico egizio, e non avendo interessi collimanti con quelli delle dinastie faraoniche, lo resero utile ai popoli asianici che li sostenevano (gli Apiru, o gli abitanti delle sabbie, o i Mentiu del Sinai) operando direttamente o indirettamente il miracolo di un protoalfabeto. La dimostrazione sta nelle tavole alfabetiche a noi note, la più antica delle quali fu trovata nel deserto dei Sinai (Protosinaitico del XVI-XV sec. a.e.v.), nelle miniere di turchese e rame di Serabit El-Kadem.

Il secondo apparato alfabetico è noto dal sarcofago del re Ahiram (Biblos, XIII-XI sec. a.e.v.), dove si nota una evoluzione in linea diretta dal proto sinaitico. Il terzo apparato alfabetico è quello della stele di Meša (re di Moab, IX sec. a.e.v.) le cui forme sono appena più "evolute" (se così pos sia mo esprimerci) delle precedenti. Qualcuno confronta i caratteri della celebre Stele di Nora, in Sardegna, con quelli della stele di Meša: se così è, i caratteri norensi sono del 1000 a.e.v., ascendono ai tempi di Davide e di Salomone, o giù di lì.

In seguito non si può più neppure parlare di "lettere fenicie" tout court, perché ci fu una sempre più netta distinzione: da una parte avvenne l’evolu zione ebraico-aramaica, a cominciare dai papiri aramaici di Ermopoli (Egit to, V sec. a.e.v.), dai cui caratteri risalgono direttamente quelli dei Ma no scritti di Qumran (I sec. a.e.v.) ed in seguito quelli quadrati del Pentateuco ebraico; dall’altra parte ci fu l’evoluzione che fissò in caratteri immutabili l’alfabeto fenicio propriamente detto, trasmettendolo a Cartagine, agli Etruschi, ai Greci.

In realtà, una lingua fenicia originaria non esiste in quanto tale: esiste soltanto se non la disgiungiamo da quella ebraica ed ebraico-aramaica. "Lo studio sul primo sviluppo dell'alfabeto nel Levante avanzò di pari passo con le ricerche sugli antichi linguaggi semiti e con importanti scoperte archeologiche. La pietra moabita o stele del re Meša, rinvenuta a Dhiban nel 1868, sembrava serbare una forma arcaica precedente alle lettere fenicie. Il sarcofago di Eshmunazar re di Sidone, alcune tazze incise provenienti dal Libano e altri oggetti cominciarono a fornire le prove che l'alfabeto aveva avuto un'ampia diffusione nel tempo e nello spazio, già prima che i fenici lo diffondessero lungo le rotte del loro commercio" (Drucker, LA 28).

Dopo l'avvento delle lettere alfabetiche fenicie, etrusche e greche, così banali ma così terribilmente democratiche, il corpo sacerdotale egizio, declinante e sconfitto nelle prerogative sacrali, aveva perduto gran parte del potere. Con l'avvento dei primi re alessandrini il loro sistema grafico tramontò fatalmente. Ma fu proprio allora che i sacerdoti egizi si presero una rivalsa morale, riuscendo a dare una seconda eternità a quelle potenti immagini visive "originarie e divine". Il potere simbolico di quei grafemi s'indurì attorno al concetto di "geroglifico", che fu uno dei temi centrali del Corpus Hermeticum, un insieme di scritti che, prodotti tra il II e il III sec. e.v., univano gnosticismo cristiano e misticismo arcano in una dottrina che pretendeva di risalire alla figura di Ermete Trismegisto, forma grecizzata del dio egizio Thot. Da quel momento la trasmissione dei grafemi egizi come sistema di comunicazione era terminata.

È proprio attraverso il cuneiforme di Ugarit, strano apparato alfabetico così difforme dalle lettere fenicie, che conosciamo la prodigiosa evoluzione della civiltà ugaritica e, per riflesso, di quella palestinese. I fenici di Ugarit sono i promotori d’una letteratura poetica altissima, i cui vertici si riflessero nella Terra di Canaan e pervasero l’intera letteratura ebraica (quella nota come Bibbia). Possiamo affermare che nel territorio cananeo, eternamente compresso e travagliato tra le pretese imperiali assire, hittite, egizie, si svilupparono le condizioni per uno sviluppo vertiginoso della civiltà, cui fanno obbligatoriamente riferimento gli stessi storici e filosofi greci quando debbono render conto delle radici della propria grandezza.

Ad Ugarit fu rinvenuto il più antico alfabetario conosciuto, del 1350 a.e.v., i tempi del re ‛Ammittamru II. "Oltre il 70% del vocabolario ugaritico è attestato nelle altre lingue cananee - ebraico compreso - con gli stessi significati o, al più, con sensi molto vicini" (Baldacci, SU 224). Secon do il Baldacci, i modelli più arcaici di ambo le lingue sono ipotizzabili al III millennio, dal quale sarebbero derivate le tradizioni narrative orali: Epiche arcaiche cananee > Tradizioni orali dei Semiti occidentali > Epiche amorree > Epiche ugaritiche > Epica biblica (le due ultime produzioni della filiera s'invertono ad ogni pie' sospinto e quindi diventano reciproche: Epiche amorree < Epiche ugaritiche < Epica biblica). È il caso, ad es., del tema biblico del Dio-Guerriero (Es 15, 1-18). La stessa tradizione si ritrova ad Ugarit nel ciclo di Ba‛lu e recentemente è stata ipotizzata anche nei miti amorrei del XVIII sec., vedendo in ciò l'indice di una grande unità non solo territoriale ma anche culturale nella Siria dei Semiti occidentali. La continuità dell'epica va vista anche nella religione, "soprattutto nelle epiche patriarcarli (XV-XIV secc. a.C.) dove, in aggiunta al nome di Yahweh, si può osservare l'equazione Yahweh = El che null'altro testimonia se non la continuità tra l'El di Canaan e lo Yahweh di Israele. El/Yahweh è quindi il dio che garantisce anche per Israele eredi (Gn 49,25) e che provvede alla salute (Nm 23,20); nel ciclo di Giacobbe, in Gn 49,24 è chiamato ’ăbîr ya‛ăqōb, 'il toro di Giacobbe', lo stesso titolo che Ilu ha in ugaritico, 'toro' " (Baldacci, SU). "Qualunque sia d'altronde la etimologia del nome di Israele (yiśrā’ēl), è chiaro che si tratta di un nome determinato dall'unione di una forma verbale con il nome divino ’ēl a conferma di un'originaria comunità di fedeli a questa divinità Cananea” (SU 230). "È stato fatto notare come dei 1454 termini utilizzati nei testi di Ugarit per descrivere il mondo del divino, ben 711 - quasi il 50% quindi - trovi precise corrispondenze (d'impiego, di significato e, a volte, persino di posizione, nella struttura della frase) nell'Antico Testamento" (Baldacci, SU).

"Questa continuità tra religione cananea e religione di Israele è anche reperibile nei molti nomi di luogo formati dal nome bêt 'tempio' unito a quello di un dio: così bêt-’ēl (Gn 12,8) indica che originariamente era al culto dell'El cananeo che si riferiva il toponimo; bêt-dāgôn (1Sam 5,2) evoca il culto del dio cananeo Dagānu; bêt-hôrōn (Gs 16,5) quello della divinità astrale Horānu; bêt-‛ǎnāt (Gs 15,59) quello connesso col culto della dea ‛Anatu; bêt-šemeš (Gs 15,10) quello dedicato al Sole; bêt-‛azmāwet (Esd 2,24) quello connesso con Motu il dio dell'Oltretomba. Nel 1946, Julius Oberman nel commentare le attinenze tra la Bibbia ed i testi di Ugarit scrisse: «Essi (i.e. i testi di Ugarit) ci forniscono di nuovi elementi di base per il folklore religioso e letterario della Palestina e dell'Antico Testamento: elementi di base molto più antichi di quelli della Fenicia e molto più vicini di quelli dell'Egitto o di Babilonia». Naturalmente, come in tutti i casi analoghi, le similitudini della Bibbia sono anche sottolineate da alcune normali diversità che la stessa tipologia della tradizione orale determina quando si trovi applicata ad aree limitrofe e diverse tra loro, pur con un comune patrimonio culturale. Alcune di queste diversità sono unicamente imputabili alle scelte religiose operate da Israele: l'esclusiva posizione di supremazia sugli altri dei dimostrata da Yahweh/El, anche nelle più arcaiche tradizioni di Israele, creò un divario sempre maggiore con la religione cananea da cui aveva preso origine" (SU, 232).

Partendo da queste premesse poste dal Baldacci, è ovvio che la civiltà fenicia, sviluppatasi attraverso le città-stato, non poteva esprimere la propria potenza se non usufruendo della forza materiale delle popolazioni dell’hinterland, delle colline, delle montagne, con le quali dai tempi di Ugarit godeva d’una comune temperie culturale. Quella della civiltà fenicia fu una storia analoga a quella ateniese, che si espresse dentro la città ma con l’apporto di tutti gli abitanti dell’Attica e dei navigatori dell’Eubea e dell’arcipelago. I Fenici non potevano fare a meno dell’apporto in uomini e materiali da parte delle po po lazioni dell’entroterra, che erano anzitutto quelle semi-stanziali ebrai che (tribù di Dan, Neftali, Aser, Zabulon, Issacar) e quelle nomadi dei Palmi reni, che parlavano un dialetto siro-accadico. Questa compenetrazione va tenuta presente, se vogliamo intuire la composizione etnica degli equi paggi fenici che andarono per l’occidente mediterraneo a segnare del proprio crisma numerose terre straniere. In realtà la lingua di questa gente era una sola, scompartita in vari dialetti la cui comprensione reciproca era assicurata da una base comune (un po’ come avviene oggi nella lingua sarda, la cui diversità dialettale non impedisce a un campidanese di comunicare con un logudorese).

Parlare di Cananei significa parlare pure di genetica, di aplotipi. L’aplotipo è un insieme di geni che identifica una popolazione o un gruppo, e si caratterizza per le frequenze più ricorrenti dei suoi geni (es. colore degli occhi e dei capelli, altezza…). Un locus dell’aplotipo fenicio è quello caratterizzato dall’assenza del p12f. È proprio il p12f a mancare totalmente nei Fenici (delezione); non solo, ma questa mancanza si riflette dovunque siano passati i Fenici, con un gradiente che diminuisce dalle coste all’entro terra. Ciò vale, a maggior ragione, per la Sardegna. Vedi al riguardo la ricer ca di Mitchell-Hammer-Earl-Fricke del 1996 (Human evolution and the Y chromosome).

Da ciò possiamo capire meglio cosa successe in Sardegna. Cominciò tutto con i Sea Peoples, che arrivarono direttamente anche in Sardegna (difficile ipotizzare l’inverso, perché i Sea Peoples erano orde indoeuropee mischiate ai popoli indigeni tra i quali s’erano insediati, e per quanto attiene alla Sardegna arrivarono forse già mischiate ai Lidi o subito dopo i Lidi). Essi cominciarono quindi ad insediarsi nell’isola assieme (o in concorrenza) coi Lidi; ma il loro impatto maggiore lo si deve immaginare qualche decina d’anni appresso, ai tempi della catastrofe storica del XIII sec. a.e.v., allorché si videro i Sea Peoples discen dere in massa nell’Egeo, far crollare l’impero ittita, ridisegnare la carta geografica delle coste palestinesi, tentare l’invasione del Delta.

Beninteso, i portatori dell’aplotipo fenicio non furono i Sea Peoples, essi furono semplicemente coloro che misero in moto la propagazione dell’aplotipo fenicio, in quanto misero in fuga le popolazioni ugaritiche, le popolazioni costiere che in parte scapparono verso altri lidi, anch’esse miranti, nel caos delle fughe, delle controfughe e degli annientamenti, agli stessi approdi da cui erano partiti od ai quali mirarono – prima o poi – gli stessi Sea Peoples. Questi ultimi, insediandosi anche nella Terra di Canaan (c’erano Filistei, Shardana e altri) furono assorbiti gradatamente dalle popolazioni proto-fenicie residue e dalle bellicose tribù ebraiche da tempo stanziate nell’immediato retroterra, le quali solo momentaneamente restarono tecnologicamente imbelli, poiché non maneggiavano il ferro. Ma in pochi decenni le popolazioni aborigene rivierasche (quelle che non erano scappate e che s’erano ormai mescolate agli ex Sea Peoples) trasmisero la propria eredità anche alle tribù ebraiche (l’aplotipo fenicio), resero democratica la tecnologia del ferro e delle navi d’altura, quella stessa tecnologia che dal 1000 a.e.v. fece emergere la prodigiosa presenza dei Fenici, i veri portatori – assieme agli Ebrei – dell’aplotipo qui accennato.

È sorprendente la sicumera con cui gli storici, gli archeologi ed i linguisti liquidano il problema della lingua sarda delle origini, che riconoscono soltanto essere “indoeuropea” al pari di quella etrusca, ma poi mostrano d’ingabbiarsi in una mera petizione di principio, non avendo approfondito alcunché, se è vero, com’è vero, che non ammettono nella toponomastica e nella lingua sarda altro che sette reperti fenicio-punici, mentre in realtà i reperti fenici e semitici lato sensu ascendono a parecchie migliaia. Sono d’accordo col Meloni e con altri studiosi sul fatto che la toponomastica fenicio-punica fu soppiantata spesso per “riqualificare” intenzionalmente il nome del luogo, al quale i Romani mirarono, dando forme latine (o greche), mentre i geografi greci non ammisero altre designazioni se non espresse da forme e semantemi propri. Eppure quel plancher di toponimi “riqualificati” non è l’unica eredità degli usi antichi; emergono qua e là centinaia di sagome originarie pietrificate, che ad una attenta indagine mostrano una forma spesso cananea (fenicia, ebraica, aramaica), oppure risalgono a più remote stratificazioni – pre-fenicie, quasi sicuramente sardiane visto che i Sardi furono ovviamente i padroni del proprio territorio – che però, non potendo azzardare troppo su tale strato (quello dei Sea Peoples e quello ancora precedente), siamo in grado di riconoscere e “certificare” soltanto se le misuriamo sulla base panmediterranea dell’epoca, che era accadica.

La presente ricerca non mi ha posto a contatto col solo strato accadico ma anche con quello appena successivo, anzi spesso coevo e commisto, ossia quello cananeo (lingua semitica dell’ovest), che nessun linguista sinora aveva considerato, per la Sardegna, se non per minimizzarlo o escluderlo.

Io non ho operato il miracolo dello Schliemann, che si mise a scavare nella certezza di mettere in luce la città di Troia, che poi in effetti scoprì. Il mio miracolo è capovolto. Quando ho iniziato il presente lavoro non avevo altra preoccupazione che di mettere un po’ d’ordine e di metodo nello studio della toponomastica sarda. Non avevo alcun sospetto che la toponomastica sarda fosse intrisa di lemmi semitici. Ridevo della semito-mania dello Spano. Convinto della teoria del Wagner che in Sardegna i toponimi fenici sono sette e basta (anzi cinque, i quali sono in definitiva dei nomi comuni, come precisa lui stesso: tsikkirìa, mittsa, tsingorra, kemu, tsippiri), avevo intrapreso la ricerca nell’intento esclusivo di dare finalmente un etimo ai nomi di tutti i centri abitati della Sardegna, soppesando la devastante insipienza con cui sinora erano stati considerati. Chi andava a immaginare che, strato dopo strato, lemma dopo lemma, campo semantico dopo campo semantico, avrei composto un elenco di 1900 toponimi (molti di più rispetto al numero dei paesi) e, sinora, un ulteriore elenco di 4000 lemmi, e che l’indagine comparata di questa messe di forme prima inesplorate mi avrebbe inchiodato ad una responsabilità nuova, proiettandomi fuori dell’orbita asfittica della linguistica indoeuropea? Non era mia intenzione, non avevo preconcetti in materia, non volevo onorare alcuna ideologia. Mi è bastato il coraggio, mi è bastata l’indignazione per come sono stati negletti gli studi sulla lingua sarda delle origini. L’orgoglio intellettuale ha fatto il resto. E dopo la toponomastica, i miei studi sono avanzati attraverso l’intero scibile della Sardegna. Per ora ho scandagliato: 1 un buon numero di toponimi; 2 i numerosissimi nomi dei pani; 3 tutti i nomi della flora; 4 tutti i nomi delle malattie, delle pratiche magiche, delle pratiche sciamaniche, della religione arcaica; 5 tutti i termini sardo-ebraici; 6 tutti i termini sul Carnevale sardo; 7 numerosi termini sulla musica antica della Sardegna. Altri campi dello scibile sono sotto attenta osservazione, e ne scaturiranno a breve dei dizionari tematici.

Riesumando lo strato cananeo, ho finito per completare il mosaico del plancher preromano. La fatica dell'inda gine mi ha portato al fondo della sconvolta realtà della lingua sarda, che pochi linguisti hanno saputo governare con metodo adeguato. Molti di loro, impegnati a sepellire i lemmi che non capivano, ne hanno precipi to samente chiuso a migliaia nel cimitero “proto-sardo”, dichiarando di fatto la propria incompetenza sulle lingue semitiche e su quella etrusca. E invece è proprio da tale cimi tero che bisogna partire, per riesumare tanti lemmi ancora vivi e parlati dal popolo.

Ba‛alu, Motu, Šamaš, Horanu, Šalimu, ‛Aštartu sono deità cananee che citiamo come un (minimo) esempio di sopravvivenza nella toponomastica sar da, nei nomi propri, nei nomi comuni (es. Šamaš > Samassi, Horanu > Orani, Motu > Mom moti, Dandannu > Tadannu). Sono migliaia di termini che dànno una sfilza di referenti e indicano un uso preciso del territorio, delle cose, degli ambienti, dei sentimenti, che non è soltanto sacrale (come suppose Sardella) ma economico, funzionale agli scambi, alla specializzazione, alla vocazione agraria, alla qualità dei pascoli, al paesaggio, alla flora, alla panificazione, alle malattie, alle credenze, alla religione, alla magia.

A questo punto debbo fare una precisazione. Mentre sui Fenici propriamente detti (ossia i Giudeo-Cananei) la ricerca linguistica in Sardegna può fermarsi facilmente ad uno-due secoli a.e.v., per gli Ebrei propriamente detti il discorso si fa più articolato. La loro presenza in Sardegna può essere analizzata su quattro piani temporali: epoca fenicia e fenicio-punica, epoca del primo impero, epoca del tardo-impero, epoca del XIV secolo dell’era volgare.

Circa il piano fenicio, sono convinto che la storia della convivenza (e delle frizioni) tra le popolazioni in Terra di Canaan (simile per certi versi allo “scontro” tra Sardi planiziari e Barbaricini delle montagne) abbia portato a formare spesso degli equipaggi misti. Per intenderci, la terra sarda fu colonizzata da semiti delle coste e dell’interno affratellati da un unico intento. A far propendere per questa tesi non è solo una stringente logica storica ma una ancor più rigorosa logica economica. I primi fenici (o uguaritici o pre-fenici) approdati in Sardegna propalarono (come che non fosse mai bastato l’Oracolo di Delfo) la notizia di un’isola strabiliante, dove alle magnifiche opportunità delle coste, delle immense fioriture di corallo rosso, delle lagune prodigiosamente ricche di murice, delle innume re voli saline, delle pianure cerealicole e delle miniere si affiancavano gli ster mi nati territori montani ricchissimi di sughero, di foreste, di legname, di quer ce, lecci, terebinti, tassi, ginepri; montagne ricche di pascoli, acqua, sel vag gina. È del tutto ovvio che la notizia pacificasse quelle tribù guerriere, determinando lo stop della secolare pressione delle tribù ebraiche che ambivano ad insediarsi sulla costa. Successe né più né meno quanto avvenuto in Italia nel Secondo Dopoguerra (dal 1946), con l’avvento della democrazia e dell’espansione economica, allorché centinaia di migliaia di pecore barbaricine furono traslate di peso sulle navi e trapiantate sulle montagne del Lazio e della Toscana ormai vuote di pastori. Oggi non c’è plaga montana dell’appennino centrale che non parli sardo.

Così avvenne per la Sardegna di 900-800 anni a.e.v., ma anche per la Sardegna del 1000 a.e.v., se accettiamo la notizia veramente eclatante della Bibbia relativa alla costruzione del Tempio di Salomone. Il re degli Ebrei era in pace ed armonia col re di Tiro, il fenicio Chiram, dal quale ottenne non solo tutti i cedri ed i terebinti necessari ad edificare la Casa di Dio, ma persino gli artisti che plasmarono le statue dei Cherubini, le foglie di palma ed i boccioli dei fiori. Salomone riconosceva che “fra di noi nessuno è capace di tagliare il legname come sanno fare quelli di Sidone”. Alla cava e alla lavo ra zione dei grandi massi per le basi e le mura del Tempio lavorarono artigiani ebrei ed artigiani di Biblos. Quindi artisti ed operai vennero in parte da queste tre città-stato fenicie. Salomone ricambiò i favori di Chiram rendendogli per parecchi anni orzo, grano, vino e olive schiacciate ossia olio d’oliva (1Re 5; 2Cr 2,2-15). Il longevo Chiram aveva avuto ottimi rapporti anche col re David, al quale aveva mandato legno di cedro e maestranze (2Sam 5,11; 1Cr 14,1; 22,4). Ricordiamo che Chiram aiutò Salomone anche con l’invio di marinai esperti per la flotta di Ezion-Ghèber nel golfo di ‘Aqabah, da cui fece rotta verso Ofir (1Re 9,26-28; 10,11-12; 2Cr 8,17-18; 9,10-11). La “flotta di Taršis” (Tartesso? = Ezion-Ghèber?) appartenente a Salomone navigava dal golfo di Aqabah al Mar Rosso ed oltre, assieme alla flotta di Chiram (1Re 10,22; 2Cr 9,21-22). Tiro intrapre se la propria intensa attività di colonizzazione dopo aver preso il controllo di Kition, sull’isola di Cipro, in un momento compreso tra l’XI e il X sec.a.e.v., ed è da quei tempi che iniziò l’avventura cananea, capitanata dai Tirii, lungo le coste del Mediterraneo centrale occidentale.

Sembra quindi ovvio che i pastori ebrei, dal 1000 a.e.v. in qua, si mischiassero in pace coi cittadini della costa (coi "fenici"), e sbarcassero poi in Sardegna per ripopolare le montagne, che allora erano delle entità economiche ubertose e di grande promessa produttiva. Non solo, ma gli Ebrei si portarono appresso i propri ulivi. Non si capisce altrimenti perchè in Sardegna esistano ancora molti ulivi che, a detta dei botanici e dei forestali, risalgono a millenni prima di Cristo, ulivi che i Greci non piantarono di certo. Si sa che l'ulivo era conosciuto dai Sumeri 3000 anni a.e.v., ed in terra di Canaan è documentato da quando si cominciò a utilizzare l’alfabeto: Olio faranno piovere i cieli - di miele fluiranno i torrenti (Corpo del cuneiforme di Ugarit: III: 12-13, citato dal Baldacci). Ciò significa che ogni popolo portò in Sardegna i propri ulivi. Ciò, beninteso, non significa che i Sardiani precedenti non conoscessero l’ulivo, poichè esso in Sardegna è sempre esistito (ne esistono alcuni che fruttificano ancora da 7000 anni).

Questo è il primissimo strato ebraico in terra sarda, cui seguì sicuramente un altro sub-impulso al tempo dell’assedio di Gerusalemme da parte di Sennacherib, un altro quando Gerusalemme cadde sotto i colpi di Nabuccodonosor, un altro durante l’esilio babilonese; forse un quarto durante l’invasione che dette forma al primo regno ellenistico.

Il secondo strato storico della presenza ebraica in Sardegna è dichiarato bene da Tacito e da Giuseppe l’Ebreo, che narrano d’un trasferimento coatto avvenuto, secondo i testi, nell’anno 19 dell’Era Volgare.

Tacito, Annali, Libro 2°, LXXXIV, 85: Eodem anno gravibus senatus decretis libido feminarum coercita cautumque, ne quaestum corpore faceret cui avus aut pater aut maritus eques Romanus fuisset. Nam Vistilia, praetoria familia genita, licentiam stupri apud aediles vulgaverat, more inter veteres recepto, qui satis poenarum adversum impudicas in ipsa professione flagittii credebant. Exactum et a Titidio Labeone, Vistiliae marito, cur in uxore delicti manifesta ultionem legis omisisset. Atque illo praetendente sexaginta dies ad consultandum datos necdum praeterisse, statim visum de Vistilia statuere; eaque in insulam Seriphon abdita est.

Actum et de sacris Aegyptiis Iudaicisque pellendis, factum patrum consultum, ut quattor milia libertini generis ea superstizione infecta, quis idonea aetas, in insulam Sardiniam veherentur, coercendis illic latrociniis et, si ob gravitatem caeli interissent, vile damnum; ceteri cederent Italia, nisi certam ante diem profanos ritus exuissent.

“In quello stesso anno il Senato con severissimi decreti cercò di reprimere la dissolutezza delle donne, e dispose che a nessuna, che avesse avuto l’avo o il padre o il marito cavaliere romano, fosse lecito prostituire se stessa. Vistilia infatti, appartenente a famiglia pretoria, aveva dichiarato dinanzi agli edili di essere pubblica meretrice, secondo l’uso vigente fra gli antichi, i quali pensavano che pena sufficiente alle donne corrotte fosse la stessa pubblica confessione della loro infamia. Fu imposto anche a Titidio Labeone, marito di Vistilia, di giustificarsi perché aveva trascurato di ricorrere alla legge contro la moglie, rea confessa di tale colpa; e poiché quello adduceva come pretesto che non erano ancora trascorsi i sessanta giorni, concessi per formulare l’accusa, parve al Senato che bastasse prendere una decisione nei riguardi della sola Vistilia, che fu esiliata nell’isola di Serifo.

“Si trattò anche dell’abolizione dei culti egizi e giudaici, e si deliberò che quattromila liberti, seguaci di quella superstizione infetta, i quali, per età, erano atti al servizio militare, fossero trasportati in Sardegna, per la campagna contro il brigantaggio; se poi fossero periti per i miasmi del clima, sarebbe stato ben poco danno; agli altri fu comandato di uscire dall’Italia, se entro un giorno fissato non avessero abiurato e respinto quei riti profani.”

Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche, XVIII, 81-84) dà una versione alquanto diversa dell’episodio tacitiano: “C’era un Giudeo, un vero fuggitivo, allontanatosi dal proprio paese perché accusato di trasgredire certe leggi, e per tale motivo temeva una punizione. Proprio in questo periodo costui risiedeva a Roma e svolgeva il ruolo di interprete della legge mosaica e della sua saggezza. Costui arruolò tre mascalzoni suoi pari; e allorché Fulvia, una matrona d’alto rango, diventata una proselita giudea, incominciò a incontrarsi regolarmente con loro, la incitarono a inviare porpora e oro al tempio di Gerusalemme. Essi, però, prendevano i doni e se ne servivano per le proprie spese personali, poiché fin dall’inizio questa era la loro intenzione nel chiedere doni. Saturnino, sollecitato dalla moglie Fulvia, riferì tutto a Tiberio, suo amico; per tale motivo egli ordinò a tutta la comunità giudaica di abbandonare Roma. I consoli redassero un elenco di quattromila di questi Giudei per il servizio militare e li inviarono nell’isola di Sardegna; ma ne penalizzarono molti di più, che per timore di infrangere la legge giudaica, rifiutavano il servizio militare. E così per la malvagità di quattro persone, i Giudei furono espulsi dalla città.”

Svetonio (Vita Caesarum, Tiberius, Liber III, XXXVI) riporta anch’egli la notizia, sia pure in termini più generici: Externas caerimonias, Aegyptios Iudaicosque ritus compescuit, coactis qui superstizione ea tenebantur religiosas vestes cum in strumento omni comburere. Iudaeorum iuventutem per speciem sacramenti in provincias gravioris caeli distribuit, reliquos gentis eiusdem vel similia sectantes urbe summovit, sub poena perpetuae servitutis nisi obtemperassent. Expulit et mathematicos, sed deprecantibus ac se artem desituros promittentibus veniam dedit. Traduzione: “Represse i culti stranieri e i riti egiziani e giudaici, costringendo quelli che professavano tali culti a bruciare le vesti da cerimonia e tutto l’arredo sacro. Col pretesto del servizio militare distribuì in province dal clima piuttosto malsano i giovani giudei, e allontanò dalla capitale gli altri dello stesso popolo e quelli che seguivano culti simili ad essi, sotto pena di perpetua schiavitù se non avessero obbedito. Cacciò pure gli astrologi; poi però, quando lo supplicarono e promisero che avrebbero rinunciato alla loro professione, li perdonò.”

Dal testo di Tacito risalta primariamente un fatto, che i coatti non erano tutti ebrei, nonostante l'affermazione contraria di Giuseppe; ma possiamo supporre che in gran parte lo fossero, perchè non era costume degli egiziani di riconoscersi come popolo anche fuori casa. Gli Ebrei sono stati unici nella storia universale a sentirsi (e ricostituirsi sempre) come popolo ovunque si trovassero. Quindi Tiberio aveva fatto un atto antiebraico, uno dei tanti sopportati dagli Ebrei in epoca pre-costantiniana. Dalla notizia di Giuseppe risalta la difficilissima posizione degli Ebrei rispetto al servizio di leva imperiale obbligatoria, quale poi si configurò anche presso i primi cristiani. Su questa posizione ideologica l'imperatore operò, sperando di scardinare un'etnia poco disposta ad integrarsi. Non a caso i quattromila erano tutti maschi ed in età di leva, quindi giovani, pronti al matrimonio. Grazie al "guanto di velluto" dell'alleata malaria, Tiberio aveva la certezza che il drastico ridimensionamento mercè questa diaspora potesse avvenire proprio in terra sarda. Ma fu proprio lo stato di belligeranza dei Barbaricini che salvò i Quattromila, spediti in fretta su montagne che non conoscevano la malaria (Tiberio evidentemente non sapeva che la malaria era un fenomeno della pianura).

Una volta giunti in Sardegna, quale fu infatti il destino dei Quattromila? Dai toponimi e da altri reperti lessicali ebraici immagino che furono dispersi per le montagne dell'isola, ma alcuni nuclei ebraici furono tenuti coesi per finalità strategiche. Questi ultimi non furono lasciati soli ma vennero inquadrati, per ragioni di disciplina, di arte marziale e di efficienza tattica, assieme ad altre unità insediative e combattenti più "lealiste" (il cui numero però va immaginato esiguo). Le ragioni strategiche dettarono anche il numero e la dislocazione dei vari contingenti. Di questi forse il più grosso fu destinato a fare argine attorno alla capitale Karalis ed alle sue pianure, al fine di contenere il preoccupante fluttuare dei Barbaricini sulle montagne che da Sìnnai vanno sino al Flumendosa spaziando nell'intero corno sud-orientale dell'isola.

Così nacque l'accampamento militare che poi, trasformatosi lentamente in villaggio, prese il nome di Sìnai, (Sìnnai secondo la fonetica sarda, ma ancora nel medioevo Sìnai). Questo accampamento-villaggio doveva essere la base di partenza per ogni attacco (o contrattacco). La libertà di dare il nome più adatto al proprio villaggio-caserma era il minimo che questi coatti potessero pretendere. Non solo, per quanto diremo adesso dobbiamo immaginare che essi non abbiano avuto più ragioni per tornare a Roma, dopo la revoca dell'esilio da parte dell’imperatore Claudio. Paradossale ma non troppo, essi avevano scoperto di dover "mettere in riga" nientemeno che gente parlante la loro stessa lingua, o giù di lì. E chiaramente si rifiuta rono, o temporeggiarono. Non importa quali modi ostili o astuti o garantisti abbiano usato presso il comando romano. Probabilmente escogitarono un modus vivendi tale da placare la foga dei Barbaricini, tenendoli a bada ed integrandosi con loro, impedendogli nel contempo di arrecare danno alle pianure. Senza questa intuizione, non capiremo mai nè il mistero della "sparizione storica" dei Quattromila nè il mistero della perpetuazione di certi toponimi-guida sulle montagne. Ricordiamo che la lingua latina, dopo due secoli dalla conquista, era parlata a malapena entro le mura cittadine, mentre tutto il resto dell'isola (specie sulle montagne) continuava ad esprimersi coi linguaggi cananei portati dai "fenici" e dai punici, oltrechè con la lingua accadica.

Un dato di storia territoriale conferma l'insediamento ebraico a Sìnnai, che non può essere spiegato adeguatamente senza immaginare che per i com bat tenti ebraici dovette essere applicata una compensazione terriera post-levam, o addirittura una compensazione tipo "leva dei kabaddáris", così rino ma ta nell'epoca bizantina, con attribuzioni di ampie proprietà in cambio del controllo del limes. Con l'Unità d'Italia nel XIX secolo Sìnnai risultò essere il comune sardo con maggiore superficie territoriale (in proporzione agli abitanti): possedeva nientemeno che l'intero corno sud-orientale della Sardegna, un territorio immenso. Non c'è altra spiegazione a ciò, se non che fu proprio Sìnnai ad avere avuto l'incarico di controllare, già da epoca romana, quell'immensa estensione priva d'insediamenti.

Non sembri strano se aggiungo un dato che, osservato con superficialità, può destare persino il riso, anche perché riguarda le tradizioni gastro nomiche: Sinnai è l'unico paese della Sardegna dove la coltivazione dei mandorli era, nel passato, proverbiale. Servivano e servono ancora a produrre il dolce sinnaese, che è celebrato in tutta l'isola per essere esclusivamente (ripeto: esclusivamente) a base di mandorle ed uova, oltrechè di farina. Se ne produce una decina di tipi. Il che significherebbe poco o niente se non si sa con quale talento le donne sinnaesi rendano la mandorla predominante e simbiotica all'impasto residuo. Nessuna donna sarda è capace di tanto. Ne risulta un dolce raffinato, celebrato in tutta la Sardegna. Ebbene, questa formula (il cui stupefacente equilibrio e la cui gestione sta nelle mani di poche signore accorte che nessuna donna sarda è riuscita mai ad imitare) è uno dei comandamenti più rigorosi della cucina cashèr, la cucina ebraica tramandata sin dalle origini della Bibbia (Levitico, cap. XI e XVII; Esodo, XII, cap. 19, ecc.).

Ora però dobbiamo entrare nel campo dei toponimi. Anticamente alla sommità del colle dell'antica Sìnai esistevano due villaggi perfettamente giustapposti, Sìnai e Segossìni (il secondo toponimo deriva dall’accad. seḫrum ‘modesto, piccolo’ o siḫru ‘bambino, servo’ + Sínai = 'piccola Sínai'). Stavano entrambi sul sito cacuminale, con posizione paritetica, unita ma distinta. Erano indubbiamente gruppi amici. Non si può allora non richiamare l'affermazione tacitiana che i coatti erano di religione "ebraica ed egizia". A noi sembra del tutto logico che i due gruppi coatti, una volta insediati nell'unico villaggio-caserma, abbiano costruito ognuno il proprio tempio, ben distinto ma senza intenti di reciproca sopraffazione (dissuasi a ciò dall'elemento militare romano). Fu poi attorno al tempio - quello ebraico doveva essere sotto l'attuale basamento della chiesa di S.Barbara - che elessero domicilio le famiglie dei militari congedati, creando ognuno un proprio distinto agglomerato che restò nei secoli. A dimostrare la presenza dell’elemento egizio abbiamo numerosi cognomi sardi di origine egizia, che in questo studio per brevità ometto.

La convivenza delle due religioni si protrasse non solo nel villaggio ma pure nel territorio divenuto proprietà delle due etnie. Anche in montagna abbiamo due distinte affermazioni di fede. Quella più eclatante appartiene al gruppo maggio ri tario (ebraico), ed è l'oronimo Sette Fratelli, il nome del monte più alto. La diceria popolare (suggerita dagli eruditi) deriva il nome dalle "sette punte": stantia storiella ripresa persino dal Lamarmora, il quale dimostra di non averle mai raggiunte. Egli ascese il monte assieme al professor Mori lungo la strada romana, dove ai primi del Settecento il Padre Salvatore Vidal di Maracalagonis aveva eretto un con ven to. Dall'epoca del Vidal le dicerie erano divenute due: sette punte e setti fradis, che fanno 'sette fratelli’ o ‘sette frati': c'era l'imbarazzo della scelta. In realtà non erano sette nè i frati nè le punte. Le vette sono di più (o di meno, secondo il metodo di conta). Altra caratteristica del Monte è che alla base delle guglie non è mai passato nessuno. Gli stessi itinerari carbonari di fine '800 si fermarono prima delle vette, in segno di rispetto. Manca ogni segno antropico di carattere diacronico. Gli unici segni sono dell'attuale, e riguardano esclusivamente gli uccellatori, che occupano il sito con sentierini la cui lunghezza complessiva - a disdoro delle guardie forestali che la proclamano l'area più protetta della Sardegna - misura 180 km. A parte i bracconieri, abituati ad agire nell'ombra e nella connivenza, è stato il Club Alpino Italiano ad aver fatto conoscere le vette tracciando il "Sentiero Italia" sul finire del XX secolo.

Quel fatidico Sette è inconfondibilmente legato al numero sacro degli Ebrei, trasferito alla Montagna Sacra che stava al centro dei vastissimi possedimenti. Sotto questi bellissimi inselberg, guglie superbe oggetto di religione positiva, sta un sito riferibile all'altro elemento annotato da Tacito, quello egizio. Si tratta di Bruncu su Gattu. Così come in Sardegna è rintracciabile il toponimo Sìnnai anche in altri siti, a dimostrazione del fatto che l'elemento ebraico non rimase tutto coeso, anche Gattu è rintracciabile in molte alture della Sardegna. Esso non è assolutamente da riferire al gatto selvatico ma alla Dea-Gatto Bubasti, una delle maggiori del pantheon egizio.

Ci sono altri due toponimi sacri sul Monte Sette Fratelli. Uno è Poni Fogu, l'altro è S'Eremìgu Mannu. Entrambi attribuiti con tutta evidenza dai preti bizantini, determinati a rendere fosca ed impraticabile questa montagna che prima di loro veniva ascesa in pellegrinaggio, proprio per la sua sacralità positiva. Poni Fogu 'attizza il fuoco, incendia' doveva essere il sito del Fuoco Perenne, mentre il vicino S'Eremìgu Mannu 'il Diavolo' doveva essere il sito dove stazionavano o abitavano i celebranti del Fuoco Perenne. Gli Ebrei, al pari di tutti i popoli del Vicino Oriente, tene va no perennemente acceso il fuoco sacro (anche a Roma avveniva l'uguale, mercè la casta sacerdotale delle Vestali). È più difficile immaginare lo stesso per l'Egitto, in virtù dell'assenza totale di legna (o di nafta: vedi Mesopotamia) che dissuadeva da un simile approccio nell'adorazione del Dio Sole. Quindi sembrerebbe potersi immaginare in Poni Fogu e in S'Eremìgu Mannu due siti ebraici. Discorsi analoghi possono essere fatti per altri luoghi della Sardegna.

Un buon spessore storico ha poi lo strano popolo dei Galilla, sui quali nessuno sinora ha azzardato altro che tenui o irresolute ipotesi, nonostante che l'etnico sia rimasto ad una miniera, ad un paese, ad un territorio. L’etnico appare, paradossalmente, proprio dove stavano quei Barbaricini che gli ebrei di Sìnai avrebbero dovuto combattere. Dopo 50 anni dall'episodio narrato da Tacito, ecco apparire il clamoroso casus belli dei Galilla, i quali hanno perennemente fluttuato su un vasto territorio "a cavallo" del Flumendosa e del suo lungo corso. Li ritroviamo nel Basso Gerréi (presso le foci del fiume) e poi su su fino a Esterzìli ("a cavallo" del medio corso), propinqui alla grande ansa oltre la quale siamo già alle falde del Gennargentu, alle scaturigini del più potente della Sardegna. Insomma, i Galilla erano il popolo del Flumendosa, i signori di quel grandioso corso d'acqua. Il loro nome appare sul territorio grazie alla celebre Tavola di Esterzili della quale parleremo. Galilla è stato inoltre il nome dell'attuale Villasalto sino a quando, con l'Unità d'Italia, il paese non decise di cambiarlo. Esso però è ancora il nome d'una miniera d'argento abbandonata, chiamata con evidente storpiatura Sa Lilla. Non credo fosse un caso che i Galilla sfruttassero questa miniera, incastonata in un sito selvaggio di stupenda bellezza.

Ma perchè questo strano etnico? Alcuni ipotizzano che il nome riproduca pari pari quello della Galilea (o dei Galilei). Io sono tra questi. Quanta importanza abbia poi, al riguardo, il periodo al quale far risalire l'etimo, non c'è bisogno di sottolinearlo. La migliore ipotesi è che una parte dei pastori ebrei che abbiamo ipotizzato aver popolato le montagne sarde avessero costituito il proprio etnico con riferimento all'Alta Galilea, dalla quale in prevalenza dovevano provenire. È più difficile invece immaginare che l'etnico sia nato in epoca romana da una "costola" dei famosi Quattromila, passati rumorosamente o clandestina men te oltre la barricata. La Tabula, che riproduco integralmente, delinea infatti dei diritti che si presumono antichi.

Imp. Othone Caesare Aug. cos. § XV k. Apriles § descriptum et recognitum ex codice ansato L. Helvi Agrippae procons(ulis), quem protulit Cn. Egnatius Fuscus scriba quaestorius, in quo scriptum fuit id quod infra scriptum est tabula V (capitibus) VIII et VIIII et X.

III idus Mart. L. Helvius Agrippa proco(n)s(ul) caussa cognita pronuntiavit:

Cum pro utilitate publica rebus iudicatis stare conveniat et de caussa Paluicensium M.Iuventius Rixa vir ornatissimus procurator Aug(usti) saepius pronuntiaverit fines Paluicensium ita servandos esse, ut in tabula ahenea a M.Metello ordinati essent

ultimoque pronuntiaverit

Galillenses frequenter retractantes controversia[m] nec parentes decreto suo se castigare voluisse, sed respectu clementiae optumi maximique principis contentum esse edicto admonere, ut quiescerent et rebus iudicatis starent et intra k. Octobres primas de predis Paluicensium recederent vacuamque possessionem traderent. Quod si in contumacia perseverassent, se in auctores seditionis severe anim[a]dversurum § et postea Caecilius Simplex vir clarissimus, ex eadem caussa aditus a Galillensibus dicentibus tabulam [s]e ad eam rem pertinentem ex tabulario principis adlaturos pronuntiaverit humanum esse dilationem probationi dari [et in] k. Decembres trium mensium spatium dederit, intra quam diem nisi forma allata esset, se eam, quae in provincia esset, secuturum;   ego quoque aditus a Galillensibus excusantibus, quod nondum forma allata esset, in k. Februarias qua[e] p(roximae) f(uerunt) spatium dederim, et mora[m] illis possessoribus intellegam esse iucundam:

Galil[l]enses ex finibus Paluicensium Camianorum, quos per vim occupaverant, intra k. Apriles primas decedant. Quod si huic pronuntiationi non optemperaverint, sciant se longae contumaciae iam saepe denuntiatae animadversioni obnoxios futuros. §

In consilio fuerunt M.Iulis Romulus leg. pro pr., T.Atilius Sabinus q. pro pr., M.Stertinius Rufus f., Sex Aelius Modestus, P.Lucretius Clemens, M.Domitius Vitalis, M.Lusius Fidus, M.Stertinus Rufus. § Signatores Cn.Pompei Ferocis, Aureli Galli, M.Blossi Nepotis, C.Cordi Felicis, L.Vigelli Crispini, C.Valeri Fausti, M.Lutati Sabini, L.Coccei Genialis, L.Ploti Veri, D.Veturi Felicis, L.Valeri Pepli.

Traduzione: “Imperatore Ottone Cesare Augusto console. Il giorno diciotto di marzo. Quest'ordine è stato trascritto e confrontato col registro sigillato del proconsole Lucio Elvio Agrippa, presentato da parte di Gneo Ignazio Fusco, scrivano del questore, nel quale registro era scritto ciò che era stato scritto nell'altra tavola nei capitoli VIII, IX e X. Il giorno 13 di marzo il proconsole Lucio Elvio Agrippa, sentite le parti in causa, ha reso pubblica questa sentenza:

"Poichè il bene comune prescrive che si debba tenere conto di ciò che afferma la sentenza nella causa dei Patulcensi e poichè Marco Giovenzio Rissa, uomo di grande autorità, procuratore di Augusto, molte volte ha ordinato che i confini delle terre dei Patulcensi si devono mantenere come erano stati fissati nella tavola di bronzo di Marco Metello, comunicando inoltre che era disposto a punire i Galillensi, i quali in molte circostanze avevano provocato il disordine con risse e atti arroganti e non avevano ubbidito al suo decreto, ma che tuttavia in ossequio alla benignità dell'imperatore ottimo massimo era ancora disposto ad avvertirli con un'altra ordinanza in maniera che stessero calmi rispettando questa giusta sentenza e prima dell'arrivo del mese di dicembre sgombrassero il territorio dei Patulcensi restituendone il libero possesso; che se intendessero con ostinati dispetti continuare la provocazione opponendosi agli ordini, egli stesso era pronto a punire tutti coloro che intendessero provocare disordini; dopo che i Galillensi per la medesima causa si erano rivolti a Cecilio Semplice, uomo illustre, affermando che dai documenti dell'archivio imperiale erano pronti ad esibire un'altra tavola con gli atti di questa causa; dopo che gli aveva fatto sapere che la buona volontà lo spingeva ancora a dare ulteriore proroga per la presentazione delle prove e per questo aveva concesso loro altri tre mesi fino ai primi di dicembre, trascorsi i quali, se la carta non gli fosse pervenuta, egli si sarebbe attenuto a quanto contenuto nella carta presente in provincia, anch'io, sollecitato da parte dei Galillensi che affermavano che la carta non era ancora pervenuta a loro, ho loro concesso tempo fino al primo di febbraio, rendendomi conto che a questi proprietari avrebbe fatto comodo un'altra proroga, ordino che i Galillensi, entro il primo giorno di aprile, si ritirino dal territorio dei Patulcensi Campani che hanno occupato di prepotenza senza averne diritto.

Qualora essi non siano disposti ad ubbidire a questo decreto, sappiano che saranno condannati alla pena che molte volte è stata loro prospettata per il ritardo eccessivo.

Al consiglio del proconsole hanno partecipato Marco Giulio Romolo, legato propretore, Tito Attilio Sabino, etc."

Circa la terza fase dell'insediamento ebraico, abbiamo le attestazioni di ebrei morti in epoca imperiale. Interessante è notare le catacombe ebraiche di Sulki (S.Antioco), del IV secolo, distinte da quelle cristiane e situate sotto gli edifici di Piazza Parrocchia. Tra gli altri c'è sepolto un tale Beronìce (leggi vocabolario al lemma Beronicenses) con l'iscrizione Beronice in pace iuvenis moritur, vir bonus in pace bonus, e l'invocazione salom. La citazione di Beronice non meriterebbe più di tanto, se non fosse stato il prudente Meloni, SR, 278, ad averlo accostato ai Beronicenses che fecero una dedica alla città sarda di Neapolis. È chiaro che i Beronicenses non erano un populus sardo ma semplicemente una popolazione rurale trapiantata da qualcuno, con allettamenti o con la forza (schiavitù). Erano schiavi appartenenti all'ebreo Beronice? Erano dei coltivatori semiliberi o liberi fatti arrivare da lui o da un suo omonimo per sfruttare meglio la pianura di Carbonia, e che dal "patrono" presero la denominazione (come avvenne in altre parti dell'isola, ad esempio alle Uddadhaddar)? Oppure (terzo caso) erano ebrei della diaspora provenienti da Berenìce, la cittadina accanto all'attuale Elat? O (quarto caso) ebrei provenienti spontaneamente da Berenìce della Cirenaica?

Non abbiamo fatto un'indagine a tappeto circa la presenza ebraica in periodo imperiale. Si può citare soltanto quella di alcuni ebrei a Turris Libysonis e ad Isili (vedi lemma). Ma ciò che lascia meravigliati è ancor sempre la situazione sociale nel corno sud-est della Sardegna. Sappiamo che tra quei monti (sui Sette Fratelli) passava la strada orientale romana Karalis-Tibula, che doveva essere una fascia franca dove i Barbaricini (come abbiamo supposto) non infierivano se non per ragioni profonde. Epperò alcuni fatti provano che il sud-est non fu mai controllato appieno dall'Autorità. Anzitutto in quel vastissimo sistema montuoso non nacque mai alcun paese (Burcéi è stato costruito di recente). Secondariamente l'eremo dei primi del '700 fu costruito nella parte più remota della strada romana (al centro dei Sette Fratelli) per difendere espressamente i viandanti dai grassatori, non certo per difenderli dai pastori. Terza osservazione: non c'è memoria che su quelle montagne i bizantini abbiamo mai eretto chiesuole, se non qualcosa a Mont'e Cresia, molto prima della montagna vera e propria, dove nacque la minuscola chiesa di Santa Furata e l'altra di S.Pietro in Paradiso (non a caso l'altura prese il nome di 'Monte della Chiesa'). Insomma, i monaci bizantini avevano popolato le basse colline sino a San Gregorio, nient'altro. Ed è proprio l'agionimo San Gregorio che lascia intuire una situazione nientaffatto pacifica. La sua chiesuola, un po' più a valle di S.Furata (Forada) e un po' più a monte di S.Basilio, ricevette indubbiamente quel nome perchè ci stava una guardia armata bizantina: lì c'era un limes. Gregorio significa appunto 'guardiano'. Questa situazione d'abbandono e di insicurezza era avvertita anche dall'altra parte della montagna, nella piana di Castiadas, dove i Foradesi ed i Biddamannesi, ancora nell'800, regolavano i conti reciprocamente con numerosi morti ammazzati. Se un uomo veniva ucciso tra quelle montagne, l'Angius è testimone che il colpevole non si trovava mai. Nel Medioevo il corno sud-orientale era divenuto una zona off-limits, e non solo a causa delle incursioni musulmane. Dobbiamo immaginare che la situazione di degrado socio-economico dei Sette Fratelli fosse cominciata dopo le famose Lettere di papa Gregorio Magno e la conversione forzata dei Barbaricini. Fatte terminare (con la forza) le pie visite a quelle alture, i pastori ed i porcari furono controllati a vista e lo sfruttamento della montagna ne risentì. Che gli antichi Ebrei sinnaesi non abbiano mai rinunciato completamente alla propria montagna lo testimonia ancora il toponimo Arcu su Giudéu e l’annesso idronimo Riu su Giudéu. L'area si trova in una posizione eminente rispetto al restante territorio e domina la sottostante vallata di Grommái, connotata anche dall’idronimo Riu Grommai e Rocca ‘e Grommai. Grommai è l’esito campidanese dell’antroponimo latino Cromatius, colui che anticamente detenne questo luogo ambito, dove poi s'eresse la cappella di S.Pietro in Paradiso.

Circa il quarto strato ebraico, esso è composto esclusivamente di nomi e cognomi di gente trasferita dalla Spagna in Sardegna nel XIV secolo, in virtù delle forti agevolazioni e della tutela diretta da parte del re sugli Ebrei qui pervenuti. Si tratta di gente di varia professione, tutta del settore terziario e quindi composta da commercianti, negozianti, rigattieri, segretari, medici, calzolai, maniscalchi, fabbri, rivenditori di ferraglia.

Neppure uno fra i tanti nomi di ebrei tardo-medievali insediatisi a Cagliari, Sassari, Alghero, Iglesias, Oristano è stato reperito tra i toponimi sardi, a testimonianza del fatto che le incombenze dell’economia terziaria non permettevano agli ebrei d’origine iberica alcuna permanenza sui campi e nelle foreste (dove si formano i toponimi). Ciononostante alcuni di questi nomi sono uguali (o quasi) ai nomi già attestati nei toponimi e nei condaghes, ma è puro caso.

La problematica dell’insediamento, del fortificarsi, del rapido declino e della definitiva persecuzione degli ebrei spagnoli in Sardegna è tema curato da Cecilia Tasca nel suo bel volume Gli Ebrei in Sardegna nel XIV secolo, al quale volentieri rimando. Qui mi compete soltanto far notare alcuni dei cognomi più interessanti, tra quelli che poi hanno dato il via, specialmente mercè la conversione forzata al cristianesimo, a molti cognomi sardi tuttora esistenti. Eccoli di seguito, elencati nell’ordine alfabetico del cognome sardo corrispondente (in corsivo):

Di Cagliari sono i seguenti: Abram 1352 > Aramu; Aaron 1367, maniscalco > Aroni; Asbili > Asili; Atzarch 1361-1393 > Atzara, Azara; Barraga 1385, fabbro > Barrago; Basso 1362 > Bassu; Abrahe 1381 > Cabrai; Gambay 1352, Cambai 1365, mercanti > Camba, Gamba; Cheffen 1354, mercante > Chieffi; Coffen 1352-1361, mercante > top. Coffu, Is Cioffus; Cohen 1366-1391, mercante > Cois, Coinu; Acorso Gabay 1384, mercante > cognome Corso; Vich, proveniente da Vic nel 1355 > Covaci-Vich; Crex 1352, mercante > Cresci; Dach 1346, segretario, Dachs 1369-1399 mercante > Daga; Fadalo 1359, Fadalen 1369, medici > top. Fadali; Faren 1377 > Fara; Ferrer, 1351, corredor de coll > Ferreri; Gango 1351-1368 > Ganga; Laho 1374, mercante > Lao, Lai; Levi 1367-1385, mercante > top. Lei; Lehone 1352-1361, mercante > Liori, Leoni; Magaluff 1361-1391, calzolaio > Magalli; Maymo 1365, sono numerosi: tutti mercanti > top. Mamone, spirito Maimoni; Mans 1355 > Manis; Marquet 1352, March 1369, mercanti > Marche; Mardoch 1367 > Marroccu?; Maset 1385, commerciante > Massenti; Meli 1385, mercante > Meli; Mosse 1366 > Mossa; Morell 1351, mercante? > Mureddu; Muxa, dalla Sicilia nel 1356, mercante > Musa; Muxi, Moxi nel 1343, provenienza dalla Castiglia > sardo Mussi e Mocci; Natziza 1379 > Naitza; Arsocho 1385 > Orzocco; Sabuc 1366 > Saba?; Salamo 1348, accetta pegni > top. Salamu; Ben Sechs 1350-1351, mercante > Secchi, Secci; Sina 1351, mercante? > Sena, De Sena; Sullam 1399-1401, mercante > Solla; Sollam, Sotlam 1391-1413, l’uno mercante e l’altro segretario > Solla, Sollai; Staffa 1351, mercante > Staffa; Termens 1361-1378, mercante + un altro nel 1366 > Thermes; Terner 1351, mercante > top. Turruneri? Di Alghero sono i seguenti: Bassach 1376-1385, uno corredor e l’altro segretario > Besa(ldu)ch?, top. Bassacutena?; Bonhom 1385, mercante > Bonomo; Massia 1362-1383 > Masia; Naset 1383 > Naseddu; Sabatì 1410, mercante > Sabatini. Abbiamo anche Farsis > Farci; Manahem > Manai; Nathan > Naitana.


                                            TERMINI SARDO-EBRAICI

Di seguito faccio l’elenco dei termini ebraici (o termini condivisi col sardo dalla lingua ebraico-biblica) reperiti sinora nel vocabolario sardo. Ne mancano molti altri.

ABBIR è variante del noto appellativo del Sardus Pater Babay (Addir) adorato nel tempio punico di Antas. Deriva dall’ebraico ’abbīr ‘il potente, strong’. Da cui anche il greco ‛ύβρις ‘prepotenza, spirito oppressore, dissennatamente potente’, accadico ubāru ‘forza, violenza’. Vedi il nome proprio fenicio ’bbirba‘al = ‘Forte è Baal’. E vedi Addir.

ADDAS. Anzitutto è cognome. Baccu Addas è pure una forra del Supramonte di Baunéi, integralmente rocciosa e pietrosa come tutta questa plaga, e comunque moderatamente percorribile con buoni scarponi, almeno sino a quando essa precipita in un orrido spettacolare. Oltre a questo sito, abbiamo pure la Punta Salvu Adas (relativa a un nome e cognome) in agro di Berchidda, nonchè tanti altri siti con toponimi del genere. Il Manos, citando il toponimo Bingia Addài, afferma significare ‘là, di là’ (vedi logud. aḍḍàe). Ma l’ipotesi non è accettabile. Sarebbe più verosimile una derivazione dall’ant.it. fata (vedi cgn sardo Fadda).

In realtà possiamo cominciare a togliere il toponimo dall’oscurità derivandolo dal sum. adda ‘padre’ (OCE 352), fen. ’d (Hadad), Adda ‘Marte semitico’. Cfr. al riguardo il cognome moderno, ebraico ed arabo, Hadas (1Re, 4,6). Questa ricostruzione ha un buon vantaggio, visto che il toponimo resta pressoché identico in tutta l’isola.

Possiamo comunque proporre pure una seconda soluzione, della quale ci assumiamo parimenti la paternità, che però andrebbe bene soltanto in area barbaricina, essendo legata al “colpo di glottide”. Secondo questa, adas può essere un allotropo di ádanu (Genista aetnensis), fitonimo alla cui base appartiene pure il catalano cádec ‘ginepro rosso’ (Juniperus oxycedrus) da un più antico cade. Il dileguo della velare iniziale è tipico dell’Alta Ogliastra e dell’Alta Barbagia, e per questi luoghi andrebbe particolarmente bene, dal momento che i due alberi citati crescono magnificamente nelle gole del Supramonte di Baunéi ed Urzuléi.

Ma a proposito di alberi, sembra che il dizionario dell’ebraico antico possa cavarci definitivamente d’impiccio, col lemma adàs, , ‘Mirto’ (Myrtus communis: detto anche ‘albero folto’): Nee 8,15; Is                                                                                      

                                                         I nove nomi di Dio in Sardegna

L'indagine sui vari popoli sardi (vedi file a parte) dimostra che tali genti non furono generate dal seme di antiche armate d’invasione ma da pacifiche tribù autoctone, montanare e litoranee (tra queste ultime Karénsioi, Šardana, Fenici). Logica vuole che pure i nove nomi di Dio, lungi dal costituire un pantheon (un sistema politeistico) accattato o imposto dall’esterno, siano stati un fenomeno monoteistico concresciuto, generato dalle viscere della civiltà sarda.

Se questa asserzione merita di assurgere a verità, come dimostrerò nella discussione, allora è possibile dimostrare che i nove nomi di Dio non sono altro che la descrizione dei vari aspetti (tutto sommato pochi) coi quali Dio si manifestava al suo popolo. Che il nome di Dio non sia uno soltanto, è un fatto normale in ogni civiltà. Non dimentichiamo che gli stessi Ebrei, portatori di monoteismo, ebbero a gestire almeno quattro nomi di Dio (YHWH, Elohim, Adonai, Shaddai), oltre al nome della paredra Ištar, chiamata propriamente Ašerah.

ANI. Andando in ordine alfabetico, osservo che nel Campidano (ad es. a Quartu) è così chiamato san Giovanni (santu Ani). La persona chiamata Giovanni viene invece detta Giuánni. La differenza non può essere spiegata con ragioni di eufonia, di contrazione all’incontro di due parole, di sandhi. Il parlante crede inconsciamente che santu Ani sia l’effetto di un troncamento eufonico da scrivere esattamente sant’Uáni, ma non è così. Ammesso che lo fosse, sarebbe da spiegare perché *Uáni appaia soltanto collegato a santu, mentre non appare nella normale catena parlata, e nemmeno negli appellativi del tipo tzíu Giuánni ‘zio Giovanni’.

In realtà, santu Ani è un relitto nominale riferito al dio sumero An (il Dio sommo del Cielo, espresso quasi sempre dal dio Sole, con base etimologica nel sum. an ‘luce, splendore’), poi divenuto Anu presso i Semiti. Fu impegno dei preti bizantini “aggiustare” foneticamente il fenomeno, trasformando il dio Anu in san Giovanni, il quale non a caso viene celebrato il 24 giugno, al massimo dello splendore dell’astro. Si badi che gli Egizi per An, Ani indicavano il Dio-Luna. Anu peraltro sopravvive in Sardegna proprio in questa forma, e appartiene a un cognome che i Bizantini non ebbero il potere di far sparire dalla storia linguistica.

BABÁY termine che forse dovrebbe scriversi Baby (v. Meloni SR); è uno degli appellativi del Sardus Pater venerato nel tempio punico-romano di Antas. SG 446 lo dà come termine shardana ’b’ab-y. C’è del vero in quest’asserzione, anche se la ricostruzione è lambiccata.

Babay è voce shardana ancora viva nel sardo antico e attuale babbu, babbáy, con tutte le conseguenze del caso. Vedi dunque a questa voce. Va osservato che Babay o Baba (chiamata anche Nintu o Geštinanna, principalmente Ninkhursag) è una grande divinità femminile sumerica corrispondente alla Inanna di Uruk e di altri centri come Nippur. Era la grande dea madre che presiedeva alla fecondità universale dell’umanità, delle greggi, dei campi, ma nella cui personalità, forse particolarmente in alcune città importanti quale Uruk, sono presenti rilevanti aspetti astrali. Da questi ultimi dipendono le connessioni con Anu e soprattutto l’identificazione con la stella del mattino e del tramonto.1 Baba era dea principale anche a Lagash, altra città sumerica, dove all’inizio della primavera era onorata per diversi giorni. Nell’età neosumerica a Lagash essa si festeggiava anche all’inizio dell’autunno; per assicurare la fecondità universale c’erano le nozze sacre tra il grande dio della città e Baba in un’unione che effettivamente veniva consumata dal re con una sacerdotessa.

Notisi la strabiliante trasformazione di questo appellativo, inizialmente femminile, che poi è arrivato a denotare una entità maschile, ivi compreso l’appellativo che ancora oggi rivolgiamo al genitore.

EL. In Sardegna ritroviamo anche l’autoctono El, universalmente noto come il Dio che Abramo aveva trovato al suo arrivo in Canaan e che sostituiva Enlil (il dio sumerico < En ‘Signore’ + lil ‘fantasma, spirito’, col significato iniziale di ‘Signore degli spiriti’, ossia delle anime). La forma sarda è indubbiamente arcaica e autoctona. Normalmente si ritrova nell’esclamazione-invocazione Ello! (evidente evoluzione del nome El che già ai Sardi del Medioevo cominciava ad apparire monco: ecco perchè fu completato in Ello).

Su questo lemma ho già discusso ampiamente nel § 5d, cui rimando. Rammento soltanto che El, col suo aggettivo accadico ellu, attiene al concetto di ‘limpido, puro, (ritualmente) puro’. Ricordo pure che presso gli Accadi El, Elu fu il Dio supremo (Ellil ilī ‘Ellil degli déi’, ‘Dio degli déi’), detto di Marduk, Aššur, Nergal, Ninurta, in sumerico espresso anche come Illil (< sum. il(u) ‘sorgere’), da confrontare con l’ebraico Eli (non a caso poi identificato nei dio della Luce), ugaritico e fenicio Ilu, ug. El. Gli Arabi ebbero il similare Allah, che significò ‘Luce’ per antonomasia.



IÁCCU. Terzo nome del Dio sardiano, senz’altro il più intrigante, è Iáccu, anch’esso panmediterraneo. Íaccos, Ἴακχος è pure il nome solenne di Bacco (Diónisos) nei Misteri Eleusini. Ricordo il grido rituale in onore del Dio: Iacco! Nei Misteri Íaccos era considerato figlio di Zeus e di Demetra ovvero sposo di Demetra, e veniva distinto dal Dioniso tebano, figlio di Zeus e Sémele. In alcune tradizioni Iaccos è considerato figlio di Bacco, ma in altre i due personaggi sono identici. Nel mondo latino talvolta era identificato con Libero.

Circa l’etimo di Iáccu, Íaccos, Ἴακχος, possiamo inferire che la sua base etimologica è ebraica, non per altro, ma solo perché gli Ebrei lo considerano il vero nome (quello segreto) del proprio Dio. Il sardo Iáccu, gr. Íaccos, è lo stesso tetragramma ebraico YHWH, il nome di Dio Onnipotente, da pronunciare così com’è scritto, ossia Yaḥuh. In Sardegna questo nome sacro è ripetuto numerose volte, nei nomi personali, nei cognomi, e anche in parecchi toponimi.

Tale nome sacro appare nella Bibbia 5410 volte a cominciare da Gn 2, 4. Secondo i vari rabbini che hanno pubblicato la Bibbia ebraica (ivi compreso, per l’Italia, Rav Dario Disegni), la vocalizzazione e la pronuncia di YHWH, יהוה, non sono note «perché per antichissima tradizione esso non viene mai pronunciato ma sostituito da Adonai, ‘il Signore’». A partire dal XVIII secolo nella Bibbia sono presenti tradizioni compositive differenti che si distinguono per l’utilizzo dei diversi appellativi divini. Ad esempio, nel libro della Gènesi è presente una versione della creazione che utilizza il nome Elohim; nel testo masoretico il tetragramma appare come Adonai. Nel testo greco dei Settanta è scritto Kýrios, aggettivale significante ‘che ha potere, forza, autorità’, tradotto normalmente come ‘Signore’ ma che è meglio tradurre come ‘Potente’. Si badi bene che nei più antichi frammenti greci della Bibbia (I-II secolo a.e.v.) al posto dell’aggettivale citato c’è soltanto il tetragramma ebraico. Invece in altre bibbie greche (come quella dell’Aquila) il tetragramma è scritto in lettere greche. Evidentemente essa è, dopo tali frammenti, tra le più antiche bibbie greche tramandate.

I Testimoni di Géova finora sono stati gli unici a parlare con una certa libertà di questo lemma, e ripetono le ovvie considerazioni di alcuni liberi ricercatori anglosassoni (George Howard, Paul Kahle, Sidney Jellicoa), secondo cui nei frammenti più antichi il nome divino è scritto in aramaico, o in lettere paleoebraiche, poi è traslitterato in lettere greche, infine in tutte le restanti bibbie greche il tetragramma è tradotto con Kýrios (κύριος): quest’ultimo lemma denuncia una ovvia innovazione cristiana.

L’interpretazione etimologica del tetragramma (interpretazione ebraica, s’intende) si basa su Esodo 3, 13-14-15, allorchè Dio manda Mosè dal Faraone a chiedere ed ottenere l’uscita dall’Egitto. «Allora Mosè disse al Signore: “Ecco quando io mi presenterò ai figli di Israele, e annunzierò loro: Il Signore dei padri vostri mi manda a voi, se essi mi chiederanno qual è il nome di Lui che cosa dovrò rispondere?”. E il Signore rispose: “Io sono quello che sono” e aggiunse: “Io sono, mi manda a voi”. Inoltre così disse il Signore a Mosè: “Annunzia ai figli d’Israele che è il Signore dei vostri padri, Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe che m’invia a voi. Questo è il mio nome in perpetuo, questo è il mio modo di designarmi attraverso le generazioni”».

Secondo Rav Dario Disegni, «le espressioni di questo verso [14] e del seguente sono oscure forse volutamente. Ne sono state tentate varie spiegazioni, fra le quali è difficile scegliere. In queste parole è, a quanto pare, da vedersi un’allusione al nome divino, che noi non pronunziamo, scritto con le lettere J. H. V. H. che contengono la radice del verbo che significa ‘essere’. L’espressione può significare: l’eternità, l’immutabilità di Dio. Il fatto che Egli è l’Essere, Esistente per se stesso, può voler dire: “Poco importa il mio nome, quello che importa è che Io sono”. Altra spiegazione: L’Essere di cui l’esistenza ha la sua causa in Se Stesso, e non mutua la Sua origine da alcun altro essere».

Henri Serouya (La Cabala 97) scrive che «il pensiero ebraico, portando più avanti la sua forza di astrazione, libera il segno dalla cosa significata, la parola o il nome dall’oggetto denominato; poi accorda al nome, alla parola e persino alla lettera o al numero un valore in sé, in quanto principio essenziale. Così un significato si applica a ogni nome proprio di Dio, usato dalla Scrittura: Elohim è ora Yahvé, ora Shaddai. Il nome di quattro lettere, o Yahvé, sembra avere avuto, dall’epoca talmudica, una parte capitale nel misticismo teorico e soprattutto nel misticismo pratico. Il Talmud (Yoma, IIa) dice che un tempo si sapeva pronunciare questo nome e che allora era permesso al saggio di insegnarlo ai suoi figli e ai suoi discepoli scelti, una volta alla settimana. Questo tetragramma, detto anche “nome distintamente pronunciato” (Mishnah Yoma, VI, pag. 2) e “nome unico, proprio” (Sanh., 56a; Shebuoth, 36a) poteva essere pronunciato solo nel Santuario, dai sacerdoti che recitavano la benedizione sacerdotale (Mishnah Sotà, VII, pag. 6) e dal Gran Sacerdote il giorno del digiuno (Mishnah Yoma, loc. cit.). Secondo un testo di Maimonide “dopo la morte di Simeon il Giusto, i sacerdoti, suoi fratelli, cessarono di benedire con il tetragramma ma benedissero con il nome di dodici lettere”. Questo nome divino, come distaccato da se stesso, tende a costituire un essere in sé. “Prima della creazione del mondo”, dichiara il Talmud, “non vi era che Lui e il suo nome”.

È lampante che l’interpretazione degli Ebrei è una non-interpretazione. Essi, per timore e rispetto alla santità dell’Essere, rinunciano a scandagliare scientificamente il problema dell’etimologia, anzi si rifugiano negli assurdi meandri della cabalistica, e dobbiamo dire che la loro autorevole inazione (o distrazione) ha indotto qualunque altro ricercatore, che fosse laico o ebraico o cristiano o marxista, a non immischiarsi nella questione, anzi a rimuoverla.

Se dovessi tentare personalmente una interpretazione etimologica, penso che, con quelle premesse, non riuscirei ad andare lontano. Tenuto conto che gli Ebrei hanno origine sumerica e constatato che la lingua sumerica è la più antica del mondo (tra quelle scritte), mi è forza basarmi sul termine sumerico ia ‘oh’ (una esclamazione, una esortazione), ma dopo questa esclamazione non ho nient’altro da esaminare. Però soccorre meglio l’accadico i ‘let’s, come on, suvvia’ (esortazione simile a quella sumerica), alla quale affianco aḫu che significa ‘fraternizzare’ ma principalmente ‘forza’: in composto abbiamo i-aḫu, y-aḫw, col significato di ‘Oh Forza’, ‘Oh Potenza’ (esclamativo, esortativo). Il termine accadico aḫu significante ‘forza, potenza’ giustificherebbe anche la traduzione fatta dai Settanta mediante Kýrios ‘Potente’. Questo esortazione-epiteto è, se vogliamo, un fatto normale, diciamo pure banale, anche perché da sempre, e fino ai nostri giorni, ci si è rivolti a Dio esclusivamente mediante l’esortazione (leggi ad es. le varie parti della Santa Messa cristiana).

Il fatto che Dio abbia ordinato a Mosè di chiamarlo mediante una esortazione riferita alla Sua potenza infinita, non deve meravigliare, poiché nella Bibbia (e anche nei Vangeli) Dio non ha mai cercato le astrusità e i sotterfugi, tantomeno le simbologie: anzi ha sempre voluto un rapporto chiaro e diretto con l’Uomo. Sono stati gli Ebrei ad avere forzato nella direzione di un distacco totale tra l’Essere divino e la Parola. E questa tradizione giudaico-cristiana è, purtroppo, ancora oggi, inossidabile.

Questa vicenda del vero nome personale di Dio, il quale a tutt’oggi permane non-riferibile, anzi addirittura ignoto (perché ignoto è sempre stato, non dimentichiamolo!), è tuttavia mal posta. Tutti i ricercatori brancolano nella cecità totale (una cecità reale, obiettiva, ma ad un tempo esilarante), e si rammaricano di non poter andare più a fondo in questa ricerca. Esilarante e assurda. Non hanno tenuto conto del fatto che Dio, alla precisa domanda di Mosè, non poteva rispondere altrimenti di come ha risposto, dicendo in sintesi che Lui NON AVEVA NOME e che poteva essere invocato soltanto come ‘il Potente’. È esilarante vedere i nostri ricercatori basiti! Eppure basta poco a capire che DIO NON PUO AVERE UN NOME! E perché mai dovrebbe averlo? Egli è Dio, è YHWH, nient’altro! A questo punto, dichiaro chiusa ogni discussione: il volerla tenere aperta è segno di dabbenaggine e di scarsissimo rispetto per la Maestà di Nostro Signore Onnipotente.

E, a dirla tutta, qua non è in gioco soltanto la dabbenaggine e lo scarso rispetto dei ricercatori. Ci aggiungerei, a loro disdoro, anche una dose d’ignoranza. Dobbiamo ammettere che abbiamo spesso proiettato gli studi biblici su uno schermo metastorico, anche perché ne siamo stati forzati dall’esegesi rabbinica, mentre al contrario ogni passo della Bibbia necessita di essere rigorosamente contestualizzato in una precisa fase della storia. Per quanto riguarda le vicende di Mosè e dell’Esodo, non possiamo capirle se non inquadrandole nella temperie culturale dei tempi in cui gli Ebrei vivevano in Egitto. E allora va chiarito che presso gli Egizi il nome personale era sottoposto a un rigorosissimo tabù, non poteva essere mai pronunciato.

L’uomo ha sempre parlato poco, e nel passato – fino a secoli recenti – la parola pronunciata era considerata sacra. Ogni parola pesava come un sasso. Ogni parola un impegno. La parola fu sempre sacra. Nessuno poteva pronunciarla invano, nessuno poteva tradirla. L’origine sacrale del linguaggio impedì per millenni di operare una netta distinzione tra le parole e le cose. L’uomo di Sumer, di Babilonia, del Nilo, della Sardegna precristiana, per quanto acculturato, non si liberò mai dal pensare concreto. Le prime idee astratte furono prerogativa degli antichi Greci, ed il loro apparire, checché se ne pensi, non fu meno rivoluzionario dell’invenzione della ruota.

Possiamo affermare che la storia fu sempre fatta, almeno fino alla Nuova Era, dall’Homo concretus, il quale ha sempre pensato che tra il nome personale e la persona fisica esistesse un legame sostanziale e vincolante, sul quale si poteva agire magicamente. In Egitto si ricordava il mito di Iside, la quale divenne la Dea Madre dell’Universo soltanto dopo aver conosciuto, mediante le sue arti magiche, il vero nome di Ra (del Sole), spodestandolo. L’uomo vide nel proprio nome una parte vitale di sé, e di conseguenza se ne prese cura, ad evitare che gli togliessero la vita. Questo legame vitale fu sentito un po’ da tutti i popoli. Fino ai tempi di Frazer (100 anni fa) tutti questi popoli tennero accuratamente nascosto ogni nome personale.

Presso gli antichi Egizi ogni persona aveva «due nomi, il nome vero e il nome buono o il nome grande e quello piccolo; e mentre il nome buono, o piccolo, era di pubblico dominio, quello vero, o grande, sembra fosse tenuto accuratamente nascosto» (Frazer). Infatti per gli Egizi «il nome era una seconda creazione dell’individuo, innanzitutto al momento della nascita, quando dalla madre viene imposto al neonato un appellativo che ne esprime sia la natura, sia il destino che ella gli augura, ma anche gli si rinnova il destino ogni volta che viene pronunciato. Questa fede nella virtù creatrice del Verbo determina tutto il comportamento degli Egiziani rispetto alla morte: infatti, nominare una persona o una cosa equivale a farla esistere al di là della scomparsa fisica, e quindi diventa necessario moltiplicare i segni di riconoscimento. È questo il motivo per cui la cappella funeraria, e in generale il luogo ove si praticava il culto del defunto, racchiudono una somma di indicazioni la più precisa possibile, in modo che il ka possa godere senza problemi di quanto gli è dovuto» (Grimal, SAE 139).

Questa temperie culturale degli Egizi aveva contagiato gli Ebrei; quindi appare assurda la pretesa di Mosè di conoscere il vero nome di Dio. Salvo il fatto che, come ho già detto, Dio non ha nome, non può averlo. E perché mai dovrebbe averlo? A cosa Gli servirebbe? L’uomo, senza accorgersene, continua a trattare Dio come una persona o come una cosa, dimenticando che Dio non è uomo, né cosa, e non può essere nemmeno puro pensiero, come invece ci si ostina a blaterare nella incommensurabile insufficienza del nostro linguaggio. Egli È. Nient’altro. Qualunque altra asserzione è una bestemmia.

Quindi all’uomo basta e avanza l’opportunità d’invocare Dio come YHWH o (che è lo stesso) come Kýrios, il ‘Potente’. Se poi gli Ebrei sono talmente imbalsamati dalla paura di chiamare direttamente Dio, qualcuno dovrebbe aiutarli a capire che gli epiteti da loro inventati per by-passare il tabù hanno esattamente la stessa semantica della parola tabuizzata, sono infatti la tautologia di YHWH.

Il fatto che i Sardi non abbiano mai patito il tabù degli Ebrei, la dice lunga sul fatto che il nome universale di YHWH dai Sardi è stato trattato con maggiore libertà, visto che in Sardegna quel nome sacro esiste un po’ dovunque. Certo, non esiste al modo come vorremmo, anche perché in Sardegna manca la tradizione scritta d’epoca precristiana (salva qualche frase fenicia). E tocca a noi oggi “sgusciare” e “raddrizzare” filologicamente certi nomi, certi epiteti, certi toponimi, allo scopo di capire la situazione di quei tempi e allo stesso tempo capire gli artifici che i preti bizantini inventarono, nella foga di ottundere e sopprimere ogni forma di dottrina che i Sardi avevano sulla religione dei padri.

Per ricuperare la storia antica della Sardegna, basta partire dal fatto che i preti bizantini fecero tabula rasa della pregressa religione, ma lo fecero con delle costanti che, una volta svelate, appalesano nitidamente le modalità con cui procedevano nel soffocare le parole-emblemi-simboli della religiosità del popolo. Il loro procedere era talmente capzioso che nessuno mai intuì l’inganno. Si trattava, per lo più, di approfittare del fatto che essi parlavano greco ed avevano quindi una lingua assai diversa da quella del popolo sardo, che parlava ancora lo “zoccolo duro” semitico. La differenza di toni, di accenti, di fonetiche, talora di concettualizzazioni da parte di quei preti che si sforzavano comunque di parlare sardo, suscitava nel popolo un irrefrenabile moto di simpatia e di disponibilità al dialogo. Quindi il popolo analfabeta accettava facilmente le “dotte” prediche con le quali i preti spiegavano che YHWH (letto i-aḫu) era lo stesso San Jacopo o Giacomo, che essi si premurarono da quell’istante di chiamare (guai a sbagliarsi!) con la fonetica sarda: Yaḫu, Yaku, Yaccu, Jagu. Fu tale la convinzione del popolo, che oggi ci ritroviamo una serie di località chiamate Santu Jaccu, Santu Jacci, e ritroviamo pure il cognome Giágu, tutti intesi come “Giacomo”!

Ma è ovvio che Iaccu, Giágu non c’entra nulla con san Giacomo apostolo. Iaccu, Giágu è nome di origine mediterranea. Non è il vezzeggiativo di Jacomo, come pensano De Felice e Pittau, ma si confronta linearmente con l’ebr. YHWH o YḤWH (leggi i-aḫu), con successiva variante patronimica latineggiante in -i: Jaci. Quindi anche i toponimi sardi noti come Jaci o Santu Jaci rimandano sempre al tetragramma ebraico (e sardo-mediterraneo). Esattamente come il cognome Giágu.

Prima di chiudere la discussione sul tema, va sottolineato che la grande paura degli Ebrei di pronunciare il nome di Dio è – tutto sommato – oltreché paradossale, relativamente recente: data dal 539 a.e.v., quasi 2500 anni, ed è possibile “storicizzarla”, decorrendo dal momento del ritorno babilonese e del rigorismo che ne conseguì. Ai tempi del Primo Tempio gli Ebrei invece praticavano una religione più ariosa e meno tabuica; ciò è dimostrato da una serie di nomi personali (e cognomi attuali, quale Netan-iahu) che sono nitidamente teoforici, ossia recano incastonato il nome di Dio, sia esso El o Yaḥwh. Vediamone qualcuno, partendo ovviamente dalla celebre esortazione ebraica (poi diventata anche cristiana) Allelùja, ebr. Hallelûyāh (הַלְּלוּ-יָהּ), che significa ‘preghiamo, lodiamo Dio’. Un altro termine ebraico che fa riflettere è Ahellil, designante i Salmi comincianti con l’invocazione Hallelûyāh.

Cito anzitutto il teoforico di un profeta ebreo, Gioèle ( יואל ), che racchiude il più antico nome di Dio, ossia El, abbinato a quello di Yhwh; significò ‘Yah[wh] è El’ ossia ‘Iaccu è proprio Dio!, è Dio medesimo!’. Esso è un arcaico nome nato ai tempi in cui si cominciava a identificare il nome del Dio siro-mesopotamico (El) col nome del Dio del deserto (Yḥwh).

Il teoforico Giovanni è ebraico, composto da Yeho + Chānān col significato di ‘Dio di Canaan’. Cfr. l’anglosassone John, una contrazione portata all’eccesso ma nella quale ancora s’intravedono i due radicali Jo (dalle tre apofonie Yah, Yeh, Yoh: vedi la contrazione יו in Gio-ele) + Hn (Chānān). A sua volta Canaan < ebr. כְּנַעַן ha la base etimologica nell’antico akk. qanānu ‘fare il nido, insediarsi’, qannu ‘il costruito’, qanu, qanā’u ‘tenere il possesso di’, ‘acquisire’; ma anche kânu ‘divenire permanente, stabile’ (di casa, territorio).

Va precisato che il nome del Dio del deserto, Yaḥ, Yḥ o Yhwh, in origine non fu altro che lo stesso nome del Dio Luna (sul quale torneremo ampiamente al Capitolo 8). Non fu un caso se il monte sacro del deserto frequentato dagli Habiru (i futuri Ebrei) fu chiamato Sināi, in onore del Dio lunare Sîn, un altro nome concorrente di Yaḥ. Il dio Luna Yah era conosciuto con lo stesso nome dall’Egitto a Babilonia. Da esso deriva il nome del patriarca Giacobbe, Yah’cobb, ‘Protetto dal Dio Luna’. Dopo la cacciata degli Hyksos dall’Egitto, il culto di Yaw continuò nella città di Ugarit sotto forma di demone del mare Yamm, ma decadde in Siria sostituito dal culto del dio della pioggia Baal Hadad. Mentre tra i nomadi Šasu Edomiti del Sinai continuò nella sua forma originaria Yhw: dio delle tempeste.

Un altro nome teoforico che propongo è Elìa, così noto dalla tradizione latina (Elias) e greca (Eleias, Elias) dall’ebr. Eliyyahu o Eliyyah: essendo lo stesso composto di Gioèle, ha ovviamente lo stesso significato: ‘El è Yahwh’, ‘El è proprio Dio’.

Altro nome teoforico è Zaccarìa, da ebr. Zekharyah (da zachar ‘ricordarsi’ e Yah ‘Dio’ = ‘Dio si è ricordato’).

Il teoforico Gioacchìno, ebr. Yohaqim è da Yah + qum ‘sollevare’ = ‘innalzato da Dio’).

Il teoforico Michèa, ebr. Mihan abbreviato da Mi-kha-yâh significa ‘chi è come Dio?’.

L’ebr. Ezeriel עַזְרִיאֵל è composto da ezer ‘aiuto’ + El ‘Dio’ col significato di ‘Dio aiuta’.

L’ebr. Matteo, Mattìa, Mattityahu מַתִּתְיָהוּ è composto da matath ‘dono’ + Yah ‘Dio’, col significato di ‘Dono di Dio’.



GIÓGLI. A fronte di questi reperti etimologici appena sciorinati, sembra oramai appianato e limpido che il celebre fantoccio portato al rogo all’acme del Carnevale sardo, ossia Giógli, ha la base etimologica identica a quella che abbiamo visto per Gioèle. Infatti anziché la base fonetica proposta ( יואל , pronuncia Yo-El) possiamo usare indifferentemente le forme apofoniche Yoḥ-Eli, che nella pronuncia sarda diviene automaticamente Yoḥ-Eli > Giògli, un arcaico nome santo che racchiude il più antico nome di Dio, ossia El, abbinato a quello di Yhwh, col significato di ‘Yah[wh] è El’, ossia ‘Iaccu è proprio Dio!, è Dio medesimo!’. Esso è un arcaico nome nato ai tempi in cui si cominciava a identificare il nome del Dio siro-mesopotamico (El) col nome del Dio del deserto (Yḥwh). E rieccoci nel pieno della tradizione ebraica, ma trapiantata (o autoctona) in piena terra di Sardegna!


LUNA è il quinto nome del Dio Unico sardiano: anch’esso peraltro condiviso in tutto il Mediterraneo e nel Vicino Oriente. Oggi per noi quell’antico termine indica banalmente la ‘luna’ in quanto materia cosmica. Wagner rimase stupefatto della bellezza poetica dell’espressione lunas de sabone ‘bolle di sapone’. Ma egli non indagò la causa di quel termine identico in tutto il Mediterraneo (salvo allacciare il lemma sardo alla solita idea coloniale di cui tutti i linguisti sono invaghiti (sardo luna < lat. luna, it. luna). In realtà la base etimologica è il sumerico lu ‘divampare’ + nu ‘creatore’, nu ‘sperma, genitali maschili’, col significato di ‘(Padre) creatore luminoso’. Presso i Sumeri la Luna era un Dio, non una Dèa, ed era considerato il Dio fecondatore dell’Universo. Insomma, scopriamo che non dall’Urbe proviene questo magnifico vocabolo sacro, ma ne scopriamo la natura autoctona, condivisa da parecchi millenni nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente.

Considerata l’arcaica antichità dei cognomi sardi, tra quelli riferiti alla Luna c’è pure Musìli, cognome che fu un termine sacro sardiano, con base nel sum. Muš ‘dio della Luna’ (SLCN 318) + akk. Ilu ‘Dio’, col significato di ‘Dio-Luna’. Cfr. sum. muš ‘faccia, apparenza’ (con riferimento all’aspetto del dio).



MERRE è il quarto nome del Dio Unico sardiano. Per discuterlo e capirlo dobbiamo collegarlo proprio al già discusso Iaccu, Santu Jacci, Santu Jaccu. Merre è interpretato da Barreca CFPS 42 come “il Dio Padre universale, presente nell’acqua di vena”, Fecondatore della Dea Madre Terra o Potnia mediterranea. Nel 1861 a S.Nicolò Gerréi in località Santu Jacci (rieccoci!) fu individuato un santuario punico di Eshmun a pianta rettangolare, edificato in blocchi di grandi dimensioni messi in opera a secco. Nell’ambito del santuario si rinvenne una base di colonna in bronzo con iscrizione trilingue (punica, latina, greca) della prima metà del sec. II a.e.v., redatta da Cleone servo dei soci alari, evidentemente delle saline di Karali, ed intestata ad Eshmun-Aescolapius-Asklepios, definito Merre, che secondo Barreca CFPS 315 è «termine del substrato mediterraneo, probabilmente significante ‘maschio’, attribuito a una divinità indigena interpretata dai punici come Eshmun». In fenicio mrr ‘significa ‘forte’, ‘esprimere forza’ (riferito a Ba‛al, il dio unico dei siro-fenici). E così siamo al Kyrios greco.

In sumerico Merre è riferito esplicitamente a Dio Unico Onnipotente: me ‘essenza divina che determina l’attività del cosmo’ + re ‘quello’ (Me-re ‘Quello della Prima Essenza, l’Edificatore dell’Universo’).

Il campo semantico che c’interessa è proprio quest’ultimo: Merre è il Dio Supremo. Da non dimenticare comunque che il dio semitico Mer, attestato nell’età accadica soprattutto nell’onomastica, figura come dio minore, e fu poi adorato principalmente presso gli Amorrei, i semiti nord-occidentali.2 Questa attenuazione della titolatura, riferita poi a Eshmun-Esculapio, non deve indurci a sminuire il fenomeno. Anzitutto ricordo che da Merre deriva il camp. mere, meri ‘padrone’, ‘signore’, il quale è la spia che nell’antichità della Sardegna la forma sumerica relativa al Dio Sommo Onnipotente non tramontò mai. Ma questa è soltanto l’anteprima.

Mi chiedo adesso perché questo tempio eretto in onore del Dio Unico Universale (la Prima Essenza) si trovasse in una località chiamata Santu Jacci. A mio avviso, il termine Santu Jacci (inteso banalmente come ‘San Giacomo’) è una paronomasia indotta, ossia una storpiatura voluta dal clero bizantino per obliterare la tradizione del Dio Unico dei Sardi, il quale veniva pure chiamato, con un termine noto anche agli Ebrei, IḤWH (pronuncia Jaḥuh e non Jahvè, come si sostiene con insulsa ignoranza da parte di molti linguisti nonchè da parte dei Testimoni di Gèova). Il clero bizantino, operando allo stesso modo per tutti gli altri nomi ed epiteti di Dio esistenti in Sardegna, fece intendere, col tempo, che Jaḥwh non era altro che san Giacomo. La stessa forzatura si nota presso gli Ispanici col loro sant’Jago (a Compostela), per quanto sia noto che le ossa di Giacomo l’Apostolo riposano nell’omonima chiesa del quartiere armeno di Gerusalemme. In Sardegna il fenomeno di Jaḥwh era così profondo, che il nome indicante il Dio Sommo e Unico rimase anche nel cognome Giágu. Peraltro tale nome sacro non poteva essere negletto, poiché esisteva già in antico accadico: yāku, ayya(k)ku, eyakku, genere di santuario riservato alle dée, specialmente quello del quartiere di Eanna ad Uruk, dov’era il santuario di Inanna o Ištar. Santu Jagu, Jaccu, Jacci, e il suo collaterale Merre, è quanto rimane oggi della vertiginosa idea dell’Unicità del Creatore, che i Sardi conservano fin dalle più remote età sumeriche, e che poi condivisero con gli Ebrei via via emigrati nell’isola dal 1000 a.e.v. Con tutta evidenza, i Bizantini non riuscirono a obliterare dal sito del tempio il nome dell’Altissimo, ma ebbero la forza, col passare dei secoli, di “santificarlo” (santu Iaccu è una “santificazione” ben riuscita, un declassamento portato magistralmente a segno; ciò riuscì bene in tutta l’isola, ovunque s’adorasse il Dio dei Sardi). Se oltre alla tradizione orale del toponimo di S.Nicolò Gerrei (Iaccu) abbiamo scoperto Merre scritto alla base di una colonna, è solo perché all’occhiuto clero cristiano era sfuggito quel nome scritto tanto in basso.



NANNA, NANNÁI, presso i Sumeri è il Dio-Luna (vedi l’Epopea di Gilgameš). Ed è pure il quinto nome del Dio Unico dei Sardiani. Questo Dio è noto agli Accadi come Sîn ma essi gli attribuiscono pure l’epiteto Nannaru come termine poetico, affettuoso, ipocoristico: quasi ‘nonno’, che è un ricordo del Nanna sumerico (adorato specialmente a Ur), con riferimento al Dio anzitutto ma poi anche a Ištar moglie di Sîn, la dea della Natura, dell’amore, della guerra. A Nanna, che percorreva la volta del cielo su un carro d’argento, occasionalmente si attribuiscono pure i fulmini e i tuoni.

Tale nome sacro viene qui riportato per la perfetta corrispondenza con nomi e toponimi sardi tipo Nanna, Nannái, Bon-nánnaro, ecc. Ma principalmente c’è una corrispondenza molto viva nell’uso idiomatico della città di Cagliari e di tutto il Campidano: Su carru ‘e Nannái, che nella mitologia sarda è il ‘tuono’. Si dice ancora ai fanciulli birichini, per indurgli panico e farli calmare: Là, là, d’intèndisi su Carru e Nannai? Chi non istas a bonu bènniri e tindi pinnigai! ‘Ascolta, lo senti il Carro di Nanna? Se non stai quieto viene a prenderti’.

Nanna nel dialetto sassarese è ‘il dormire’ del linguaggio infantile; ti porto a nanna ‘ti porto a letto, a dormire’. Il dialetto sassarese, sempre pronto ad accattare o conservare lemmi italiani antichi e moderni, conserva anche questo, usato sia nel parlare italiano sia nel dialetto: ajò a nanna ‘orsù, ti porto a dormire’. Il termine è registrato già prima di Dante.

Quanto all’etimologia, non accetto la sbrigativa presentazione del DELI, che relega il lemma nel linguaggio infantile, lasciandolo senza etimo. In realtà l’etimo esiste, occorre riferirlo al sum. Nanna, Nannai, il Dio della Luna, che era il dio più importante dei Sumeri, la cui origine è rintracciabile ad Ur. Si deve supporre che già in età arcaica nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente si usasse il termine in relazione al dormire, considerato che la Luna appare dopo il tramonto, all’ora nella quale gli antichi andavano normalmente a letto.

Questo termine appare un po’ in tutto il Mediterrano, e non solo. Abbiamo il sancrito naná e il gr. νέννος, νάννα, νίννα ‘zio materno o anche paterno’, inglese nanny ‘a woman who is paid by parents to look after their children’, nanny goat ‘capra femmina’.

L’it. (e sardo) ninna-nanna!, tipica cantilena della madre che addormenta il bimbo, ripete il termine sumerico, filtrato però attraverso il gr.-biz. νίννα-νάννα. Nannái in camp. indica pure la 'moneta, denaro, soldi'; log. nennè. Questo termine è considerato dai linguisti ipocoristico, bamboleggiante, mentre è la forma sarda più antica per indicare la moneta. É indicativo che i Romani per indicare i 'denari' usassero l'antonomastico monéta, da Junō Monéta 'Giunone ammonitrice', nel cui tempio c'era originariamente la zecca. Altrettanto indicativo è il termine sardo nannái, nennè, che hanno la base etimologica in Nanna, Nannar, Nannai, il dio sumerico della Luna (chiamato anche Sîn, ma ad Ur chiamato specificamente Nanna). C'è da immaginare che i Sumeri di Ur conservassero il tesoro pubblico della città-stato proprio nel tempio principale, quello appunto di Nanna.

Ricordo che Sargon il Grande, nel tentativo di dominare le città sumeriche da lui assoggettate, nominò addirittura sua figlia Enkheduanna sacerdotessa della divinità cittadina di Ur. Per il periodo di Isin-Larsa si hanno documenti significativi sul commercio marittimo di Ur con Dilmun. Ur, città meridionale collegata al Golfo Persico, sembra particolarmente impegnata nel commercio marittimo, che è organizzato dal grande santuario cittadino, il tempio di Nanna (e della sua paredra Ningal). Il tempio affida ai mercanti un certo quantitativo di tessuti con l'incarico di riportare a Ur lingotti di rame (i quali dovevano avere un peso certo, come gli ox-hide sardo-cipri, e dunque valere come moneta). I mercanti, al loro ritorno da Dilmun, versano una decima di mercanzie preziose (rame, pietre dure, corallo, avorio) alla paredra Ningal. Ed è così che il grande tempio diviene rapidamente l'unica vera banca della città-stato. Ecco quindi i raccordi storici di questo lemma sardo riferito alla 'moneta'.



ORCA, ORCU, termine notissimo in Sardegna, è il sesto nome del Dio Unico dei Sardiani, oggi rimasto a connotare parecchie domus de janas, tombe di giganti, persino nuraghi, chiamati domu 'e s'orcu e interpretati come 'casa dell'Orco'.

Dolores Turchi3 narra di ricordi fiabeschi, di comunicazioni verbali inviati da un nuraghe all'altro dalle fate che secondo la tradizione vi dimoravano. Uno dei racconti riguarda il nuraghe Sumbòe presso Ghilarza. «Si dice che un uomo avesse gridato al compagno, che stava un po' distante, di voler andare al nuraghe Sumboe. Udendo ciò una fata uscì dal nuraghe di Trubeli e gli disse: Si es chi andas a Sumboe / nara a tiu Balloe / chi sa fiza est morta oe. / Oe non m'aperit chiza / che l'est morta sa fiza. ('Se tu vai a Sumboe, dì a zio Salvatore che oggi è morta la figlia. Oggi non riesco a sollevare le ciglia perchè è morta la figlia). Anche il paese di Cabras rammenta un messaggio di morte che viene inviato da un nuraghe all'altro: De s'uraghe de Sianeddu / a s'uraghe de Zianneddu: / naraddi a sa 'omai Orca / ca sa fiza sua est morta ('Dal nuraghe di Sianeddu a quello di Zianeddu: riferisci a comare Orca che sua figlia è morta')». L'abitatrice di quest'ultimo nuraghe è chiamata comare Orca (vedi lat. Orcus, divinità degli Inferi). «Questo pone la jana-fata-orca in diretta comunicazione col mondo dei defunti, dandole chiare connotazioni sciamaniche» (Turchi 31).

La Turchi non va oltre nell'indagare la vera natura dell'Orca o dell'Orco in Sardegna. Sappiamo certamente che la divinità latina degli Inferi fu facilmente trasformata e plasmata nell'immaginario popolare, da parte del clero cristiano, come un essere terribile che vive nelle tenebre, nelle caverne, e si appalesa per mangiare i bambini. Semerano OCE II 496 ricorda che Orcus è tout court l'Averno, la «personificazione del dio dell'Averno. Se ne ignorò l'origine. Antico Uragus, secondo Verrio Flacco (ap. Fest., 222, 6). Sum. urugal (Orco, Averno, il mondo sotterraneo...), con la normale caduta di -l finale per suggestione della base di sum. urku 'cane'; cfr. sum. ur-gi, ur-ki 'cane', e si pensa a Cerbero».

Semerano fa un'analisi abbastanza giusta della base etimologica, ma non rende conto delle ragioni che affiancano al sumero ur-ku (letteralm. 'cane della caverna'), al lat. Orcus e al sardo Orcu pure l'it. Orca ed il sardo Orca, la cui etimologia è invece diversa. Che al femm. Orca fosse stata confermata la stessa origine etimologica del masch. Orcus, andò bene al clero cristiano, che volle fare dell'Orca un tenebroso essere delle caverne; ma occorre comprendere che Orca è originariamente la 'Dea Luna', chiamata dagli antichi accadici Urḫu(m), (W)arḫu(m).

Non c'è da dilungarsi sull'importanza della Dea Luna per i popoli post-neolitici (e pre-cristiani). «Pare che gli abitanti dell'Europa antica (e, aggiungo io, dell'Anatolia e della Mesopotamia) venerassero il ciclo completo di nascita, morte e rinascita nella forma di una "grande" dea. Diversamente dalle prime culture storiche, molte delle quali adoravano le dispensatrici della vita (per esempio la greca Afrodite) mentre trascuravano di rendere onori alle portatrici di morte (per esempio, sempre in Grecia, la Gorgone Medusa), gli Antico-Europei non dividevano la grande dea in parti "buone" e parti "cattive". La dea era una-e-molte, unità e molteplicità. La dea ibrida uccello-serpente era la grande dea del continuum vitale, la dea della nascita, della morte e della rinascita, creatrice e distruttrice, fanciulla e vecchia, una dea che nel fiore degli anni sposava il giovane dio nello hieros gamos, le "nozze sacre", e faceva nascere - per l'eternità - tutto il creato» (Gimbutas 27). In questa dea (che poi non è altra che la Grande Madre dell'Universo) fu identificata per antonomasia anche la Luna. Ecco la ragione onde il clero cristiano, nell'intento di cancellare e denigrare le religioni precedenti, fece il piccolo sforzo di tramutare Urḫu 'la Luna' in Urku '(l'orribile) cane che vive nella caverna degli Inferi'.



SANTU JACCI, Santu Jaccu. Tutta la discussione per questo Santo è stata fatta al lemma Iaccu, di cui Santu Jacci è – con forte evidenza – la “santificazione” del nome di Dio fatta dai preti bizantini al fine di “strappare” il nome venerando dal culto degli antichi Sardi.



SUÌNA. Questo è il settimo nome di Dio. Sarebbe lungo trattare dei modi che i preti bizantini nei secoli bui precedenti il Mille adottarono per combattere, debellare e annichilire le sopravvivenze pagane nell’isola di Sardegna. Abbiamo già visto il gioco facile di relegare l’effige del Dio della Natura – il porco – tra gli esseri schifosi e reietti. Parimenti avvenne per il suo aggettivale suìno. Va premesso che nel latino classico sŭinus (da sūs, sŭis ‘porco, maiale, scrofa’) non veniva utilizzato; al suo posto si usava sŭillus. Si arrivò a sŭinus per demonizzare il porco (ch’era l’effige sacra del Dio della Natura) e con esso la Gran Madre Terra. Il gioco linguistico fu facilissimo, visto che l’aggettivale relativo al maiale era identico al nome che da sempre identificava il Dio-Luna sumero-accadico, chiamato Su’īn, Su’ēn, poi divenuto Sîn per contrazione. In Sardegna, a Morgongiòri, si celebra ancora una Santa Suìna, anticamente più nota come Suìŋa a causa della nasalizzazione della /n/. La si intende come Sofìa perché ormai la memoria storica è stata recisa, ma non fu altro che la Dèa Madre o Dèa Luna (più anticamente il Dio Luna).



DÉU, DÉUS. Ci sarebbe un ottavo nome di Dio tra quelli usati nella Sardegna antica, ed è Déu. Ma forse è meglio distinguerlo rispetto alla discussione sin qui fatta per gli altri, visto che questo nome è veramente universale, a dispetto di quanto pensa lo stuolo dei linguisti che vorrebbero imporre alla Sardegna l’irritante balzello della “eterna colonizzazione”, quindi della “derivazione del pensiero sardo da altri centri più evoluti”. Salvo poi capirsi definitivamente sul concetto di “centri più evoluti”, visto che quando nacquero i concetti di “Dio”, Atene e Roma, gl’inossidabili idoli dei nostri linguisti, stavano ancora in mente Dei, nella mente di Zéus, mentre la Sardegna da oltre 1000 anni aveva costruito i suoi splendidi nuraghi, che furono eretti proprio in onore del Dio Unico, il Creatore dell’Universo.

Vale la pena citare Ζεῦς, ‘Dio’ per antonomasia, che fu il massimo dio dell’Olimpo. Figlio di Crono e Rea e fratello di Poseidone, Ade, Estia, Demetra, Era, egli apparve in Grecia come il padre degli déi e degli uomini. Ma il suo apparire a capo di un pantheon ci porta intorno al 1200 a.e.v. (Iliade), allorchè il nome di Déus/Zéus stava circolando per il Mediterraneo da millenni.

In verità, il sardo Déu è panmediterraneo, pronunciato in Grecia Zéus, in Sardegna Déu, a Roma Deus. Il termine sardo è a dir poco coevo a quello greco e al lat. deus, ma la realtà è un’altra, poichè le prove linguistiche ne confermano un’antichità molto più remota. Il termine pansardo, assieme a quello greco e latino, ha un’arcaica base nel sum. de ‘creare’ + u ‘totalità, universo’: de-u, col significato originario di ‘Creatore dell’Universo’. Che poi il skr. deva ‘dio’ abbia la stessa radice sumerica, è ulteriore indizio che fu proprio il bacino sumerico a irraggiare il concetto del Principio Universale. Vale la pena aggiungere che dalla base di 'splendore', de 'creatore' i Sumeri forgiarono un proprio termine per nominare propriamente Dio, ed è dingir, di-ĝir, che significa esattamente 'Dio dei Sumeri' (dove di significa 'Dio', ĝir significa 'autoctono, nativo' ossia 'Sumero, colui che vive nella terra di Sumer').

Non è vero che il gr. Zεύς trascriva la z- da una *dy- indoeuropea (Rendich, LI), invece la trascrive direttamente dal sumerico d-. Nel quadro dei confronti paralleli fu portata confusione dall’intromissione del lemma greco θεός ‘dio’, poichè non si è voluto render conto che θεός non è nome proprio ma nome di genere: indica qualunque dio del pantheon greco, dai quali si distingue propriamente Ζεύς col suo nome personale. Principalmente non si è voluto tener conto che il concetto greco di θεός è precisato dal collaterale verbo θέω ‘brillare, sfolgorare’: quindi θε- è forma distintiva (oppositiva) ch’esprime lo stesso concetto della radice sumerica di ‘sfolgorare’, cui si erano omologate le altre radici “indoeuropee” in dī- (es. lat. di-us), relative alla ‘luce del giorno’, allo ‘splendere, brillare, render chiaro’, che appunto hanno la base nel sumerico di ‘brillare, sfolgorare, to shine, to be bright’. Quindi il lat. di-us ‘luminoso, divino, del cielo’, di-es ‘giorno’, gr. dī-os ‘brillante, divino, celeste’ hanno la base nel sum. di ‘to shine, to be bright’ + u ‘universo’, col significato originario di ‘illuminare l’universo’; non sono quindi scomponibili in *d-ī, come pretenderebbero invece gli indoeuropeisti, che lo traducono bolsamente come ‘moto continuo (ī) della luce (d)’ (vedi Rendich), ossia in un modo che sta agli antipodi del pensiero scientifico.



PALU. Questa nona etimologia introduce un altro (?) nome di Dio. Riconosco che la mia proposta merita d’essere discussa e capita, poiché pare stravagante, o almeno mostra pochi addentellati rispetto a quanto sinora abbiamo visto per gli altri nomi di Dio.

Cionondimeno, vorrei intrudurla parlando della Grutta dessu Palu, che sta nel Supramonte di Urzuléi, lungo la Codula de Ilùne. L’origine più facile del termine Pálu sembrerebbe essere, a prima vista, il lat. pălŭs ‘palude’. Ma questo in Sardegna sarebbe inaccettabile: l’esito sardo di pălŭs, palūdis è paùli, non palu. Il sardo palu significa più precisamente ‘pendio montano’ (per es. in Anglona), mentre in Ogliastra si preferisce la forma femminile pala. Ma pure tale significato è da rifiutare. Non mette nemmeno conto considerare il termine akk. palāšu ‘perforare, bucare (parete, roccia)’ con riferimento alla celebre grotta di Su Palu, appunto.

Resta in piedi l’unico termine accettabile, che è palu < lat. pālus, pālum ‘palo’ < akk. palûm (a staff, un bastone). Ma sorge un’obiezione metodologica, perché questo significato appare fuori dagli schemi. Quindi per la quarta volta ci sarebbe da opporre una ripulsa. A ben vedere, però, il lat. pālus significa anche ‘fallo’, gr. φάλλος. E nell’intendere ciò gli antichi Latini non operavano alcuna forzatura semantica, non giocavano con la magia della metafora. È che le forme d’adorazione dell’Essere supremo, del Supremo Fecondatore (fosse egli chiamato Giove o Zeus o Baal) erano espresse col Palo in tutto il mondo conosciuto, dalla Mesopotamia sino alla terra di Canaan sino all’intera Italia, ed anche in Sardegna (ricordiamo le ligna et lapides di Gregorio Magno). In Atene le processioni del Phállos furono così importanti da generare persino una forma letteraria d’importanza universale: la tragedia.

In Italia l’antica Processione dei Falli ha mutato nome (si è… imborghesita) e, cristianamente, è divenuta la Processione dei Ceri, rimasta vivissima a Gubbio ma principalmente a Sassari (oltrechè a Nulvi, Mores e Iglésias). I Ceri in realtà sono di legno (ad Atene erano già di legno, sono stati sempre di legno: legno di fico; anzi si preferiva scolpire direttamente il fico in forma fallica, considerato che questo era il fruttifero più importante della civiltà greca).

In Sardegna dobbiamo supporre che le Feste Falliche fossero tenute vive un po’ dappertutto, ma specialmente nella città “tharrense” di Tyrris Liby so nis, prima e dopo la rifondazione romana. Solo così si spiega perché i Sassaresi (che sono i fuggitivi di Tyrris Libysonis) conservino ancora come reliquia d’incommensurabile valore la loro Fełstha Manna, ossia la Faraḍḍa, che è una delle processioni laiche più spettacolari dell’intero Mediterraneo.

Potremmo quindi dare a Palu l’ultimo significato ammesso, anzitutto perché l’acqua della Codula d’Ilùne, proprio nel sito di Su Palu, viene “inghiottita”: e ciò ha un significato sacro d’altissimo valore. E poi perché la celebre Grotta (una delle più importanti d’Italia) non sta proprio sul ‘pendio montano’ (che è il secondo significato espunto) ma è prossima alla repentina sparizione del corso d’acqua di questa códula. Rimando al lemma Teletottes (= ‘fiume che va sotto’) per capire l’importanza del più ampio sito così chiamato4, vicino al quale sta anche la grotta e lo scenografico inghiottitoio, costituito da un laghetto che recepisce il fiume sempre in piena, inghiottendolo; e un metro oltre comincia l’aridità totale della golena, che rimane tale sino al mare. Gli antichi vedevano in ciò il Sacro Sperma che penetra nel mistero della Sacra Vagina. Ci sono tanti elementi, dunque, per affermare che in questo luogo s’adorava il Palo, l’albero scorticato (e forse effigiato) a forma di fallo, che poi era l’effige di Ištar, la dea fenicia dell’amore, che presiedeva anche alla prostituzione sacra.

Sa Grutta dessu Palu era, evidentemente, un altro dei non pochi siti sardi nei cui pressi veniva praticata quella strana forma di culto naturalistico dedicata ai Genitori dell’Universo.

A proposito di Ištar-Tanit, che era la compagna di Baʽal, va sottolineata questa singolare attestazione del suo simbolo, il fallo, che è prettamente maschile. Ma ciò detto, non si può sottovalutare, in questa ricerca etimologica, proprio il nome del dio Baʽal; immagino che il toponimo Palu indicasse direttamente questo Dio, attestato in Sardegna. Egli, particolarmente onorato in Cartagine dal V sec. a.e.v. assieme alla compagna Tanit, fu onorato pure in Sardegna allo stesso modo. Onde sembrerebbe sotteso proprio il suo nome in tutti i toponimi o nomi sacri che lo echeggiano in Sardegna, a cominciare dal dorgalese (Nostra Sennora de) Balu Irde o Palu Irde, che è la Madonna di Valverde. Quel Valverde, tipico delle chiese campestri dove si adora una Madonna cristiana sconosciuta fuori dell’isola, non è altro che la paronomasia di Baʽal Irdu (akk. Bēlu Irdu, Bēlu Išdu), un epiteto sacro col significato di ‘Signore Base-del-Cielo’, ‘Baal Base-del-Cielo’.



BAʽAL. Gli altri nomi di Dio reperiti nell’antica Sardegna sono di evidente importazione. Ciò vale ad esempio per Baʽal, che è il nome di Dio attestato un po’ in tutto il Vicino Oriente: in arabo, ugaritico, fenicio, punico, aramaico, nabateo, palmireno, amorrita, babilonese, accadico. In ug. fa bʽl ‘signore, proprietario’, in amorrita baʽlum, in bab. ba’lu ‘grande, maggiore’, in akk. bēlu ‘signore, proprietario’, e così via. Questo Dio, particolarmente onorato a Cartagine dal V sec. a.e.v. assieme alla compagna Tanit, fu onorato pure in Sardegna, e suppongo che la sua massima penetrazione in terra sarda avvenne proprio in epoca cartaginese.

Va da sé che tale nome di Dio fu gestito anzitempo già dai navigatori Sardo-Fenici, che per parecchi secoli condussero i traffici tra la Sardegna e il Vicino Oriente. E poi rimase talmente concrezionato nel sistema culturale sardo, da aver dato persino dei cognomi. Abbiamo ad esempio Devaddis, cognome da sciogliere in de Vaddis riconducendolo al cognome citato nel condaghes di Silki, Trullas, Salvennor come de Valles e de Balles (Trullas). Questo cognome quindi è un patronimico, indica la filiazione da Balles, o indica direttamente il cgn Balles (De Balles, poi De Valles = ‘dei Balles’, ‘dei Valles’). È chiaro che il cognome a sua volta era già corrotto al momento della sua redazione nei condághes. Sicuramente l’origine del cognome è sardiana e pure mediterranea, e indicò il dio fenicio Baʽal (Bʽl) con base nell’akk. ba’ālu, balû ‘supplicare’, ugaritico bʽl ‘signore’. Da ba’ālu si ebbe *Balle, Balles, ed anche il cgn italianizzato Valle, Devalle, Della Valle.

A mio avviso, fu così espanso e generale il nome del dio Baʽal, che pure il toponimo Paláu (comune della Gallùra) lo ebbe per antonomasia. Paláu è da confrontare con Balláo, altro nome di villaggio sardo. Vedi anche Punta Palái nella catena del Márghine, e Peláu (idronimo dell’Ogliastra). Ma vedi pure Baláy, antico nome di Balláo e nome del promontorio dove furono giustiziati i protomartiri turritani Proto, Gavino, Gianuario.

In catalano palau significa il ‘palazzo’, ma è improbabile l’abbinamento di questo lemma con i toponimi sardi affiancabili a Baʽal (Bʽl).

Conosco la topografia del territorio di Paláu, a cominciare dalla celebre statua naturale dell’Orso. Il suo porto naturale e le sue alture litoranee, am mantate d’un fascino struggente, non poterono essere state ignorate dai navi ganti. Si sa che i Fenici, sia pure quando non lasciavano tracce, navigavano tutt’attorno alla Sardegna per commercio, ed avevano la sana abitudine di depositare sulla spiaggia o sul “molo” la propria merce, risalendo sulla nave ed attendendo educatamente che gl’indigeni s’avvicinassero e lasciassero oro, argento o altra merce di baratto. Scendevano nuovamente, e risalivano a bordo varie volte, in mutuo (e muto) accordo con gl’indigeni, sino a che non si raggiungeva un ragionevole equilibrio tra il valore intrinseco della merce e quello datogli dagli acquirenti. Poi ripartivano (Erodoto). Ma se vedevano che il sito era degno del loro Dio, allora gli erigevano un tempio, senza lasciare gente, e se ne andavano, sicuri che gl’indigeni risparmiavano religiosamente la nuova struttura. Orbene, se i Fenici (ed i Sardi) erano di tal fatta, è facile ammettere che la radice del toponimo Paláu sia identica a quella di Balláo, di Baláy, di Palái, perch’erano tutti siti degni di conservare un tempio a Baʽal. Peraltro possiamo sempre ammettere una sovrapposizione fono-semantica alla forma Baʽal del più antico akk. palaḫu ‘onorare, venerare’.

SAMASSI. Un ulteriore nome di Dio appare in Samássi, nome di un comune del Medio Campidano. Il toponimo è attestato in RDSard. a. 1341 come Somaso, l’anno seguente come Semasse.

Giusto quanto proponeva lo Spano, deriva dalla forma akk. Šamaš, il dio ‘Sole’ (esattamente il dio dell’accadica Sippar), ebraico Šeméš (ֶשֶׁמֶשׁ ) tramandatosi identico nel pantheon cananeo. La base è l’akk. šamû, ug. samû ‘cielo, volta celeste’ come fenomeno naturale e sede degli déi. Va ricordato che Šamaš nel (cosiddetto) “pantheon” mesopotamico è da considerare emanazione del Dio Luna, e poi, quando il Dio Luna fu “femminilizzato”, il suo paredro. Non è un caso che Šamaš sia scomponibile in šamû + māšu(m), ma(š)šû ‘gemello (fratello/sorella), detto di deità: stato costrutto šam-ma(š)šû, quindi col significato di ‘Gemello (fratello) della Risplendente’.

SASSU. Oltre al toponimo Samassi abbiamo pure il cognome Sassu legato al Dio Sole. Questo cognome è già registrato nel codice di S.Pietro di Sorres e nel CDS II 58/2, 60/1. Ciò è segno di alta antichità. Pittau CDS, con facile e banale assonanza, lo fa derivare dal sardo sassu ‘sabbione’ < lat. saxum. Invece vanno ricordate due cose: anzitutto che Šašu erano chiamati nel Nuovo Regno egizio i nomadi del Sinai (1540-1070 a.e.v.). Se l’origine fosse questa, avremmo una ulteriore prova, per via indiretta, del "ritorno degli Shardana" in terra sarda. Infatti la teoria che gli Shardana d'Egitto si fossero almeno mischiati agli Hyksos, prima che questi rifluissero verso il Sinai, ha parecchi sostenitori. Per questo discorso, vedi più su nel paragrafo che tratta i popoli della Sardegna.

Ciò detto, è parimenti possibile che il cgn Sassu indicasse tout court il Dio Sole, da akk. šaššu, šanšu, šamšu ‘Dio Sole’. Nulla osta a vedere nel succitato etnico Šašu un termine autoreferenziale coniato esplicitamente da tale raggruppamento, che volle chiamarsi ‘Popolo del Sole’. Col ritorno degli Shardana, tale etnico si radicò in terra sarda, divenendo il cognome Sassu, che i Bizantini ebbero buon gioco a presentare oramai come l’equivalente del lat. saxum.

TANIT. Nel trattare le divinità somme, era inevitabile giungere a parlare di paredro o paredra. Nell’antichità non ci fu alcun Dio Unico che non avesse la propria paredra. Notissima paredra importata in Sardegna fu la dea Tanit, che aveva il posto più importante a Cartagine e significativamente, per una città prettamente commerciale, la sua effigie compariva nella maggior parte delle monete della città punica. Tanit era una delle consorti di Baʽal ed era venerata come dea protettrice della città; godeva di speciali favori e venerazione da parte dei cittadini di Cartagine e del suo impero. In Sardegna la sua effige appare parecchie volte. Era la dea della fertilità, dell’amore e del piacere. Il simbolo di Tanit era la piramide tronca portante una barra rettangolare sulla sommità. Su questa barra appaiono il sole e la luna crescente (ossia i gemelli astrali). Questo simbolo può essere osservato nella maggior parte delle steli delle necropoli puniche.

Per quanto attiene alla base etimologica del nome sacro, sfogliando i dizionari di tutte le lingue morte euroasiatiche siamo in grado di mettere in rilievo parecchie radici. E così abbiamo sumerico dan, tan ‘strong lord (human)’, ‘Lord of all’; egizio dana ‘a venerable man’; dani ‘title of sun-god Ra’; Tann ‘the great god’, ‘a very ancient Earth-god’; dan-dan, title of Āpap, the serpent of evil; Tannit, goddess consort of Tann; sanscrito dāni ‘valiant, victor, courageous’; Dānava, a class of demons, sons of Danu and enemies of the gods; greco dynastēs ‘lord, master’; Danu-oi, title of Greeks; latino dan ‘master’; don ‘master, lord’; gotico e antico bretone dan ‘lord’; Hālf-Dan ‘lord of the half of the world’, a title of Thor; cornico e celtico den, dyn, a man; cornico din ‘worthy’; antico inglese thein, thane, dan ‘master’; inglese dan, a title of master or sir. Il termine è poi passato nell’uso delle lingue moderne, quale don, un titolo spagnolo di nobiltà; Danann, una famosa corsa di cavalli in Irlanda; din-astico, aggettivo relativo alle casate reali; din-àmico, ‘che ha molta energia’.

ISIDE. Anche la somma divinità egizia (l’originaria Dea Madre dell’Universo) non è meno famosa. Isis, detta in egizio Ȧst, Ast (da cui il cognome sardo Aste), viene anche pronunciata Iset col significato di ‘trono’, per l’acconciatura del capo a forma di trono. Nella pronuncia semitica e greca Ísis riconosciamo l’origine etimologica dal sum. isiš ‘dolore, tristezza’. Si conosce la storia teologica di questa figura, che fu per gli Egizi quella che per gli Occidentali è la Madre di Gesù Cristo (ma sarebbe meglio dire la Sua paredra). Come Cristo, suo marito Osìride muore e risorge ogni anno. Ella regnò assieme a Lui sugli uomini, creando delle buone leggi e governando il regno con equità, mentre il suo sposo andava guerreggiando per il mondo. Ella è il modello di sposa e di madre, che alleva il proprio figlio con immensa tristezza nel desiderio di vendicare l’uccisione di suo marito avvenuta per mano del fratello Seth. Ella è la Madre Universale che tiene sulle ginocchia suo figlio Horus. Deriva da questa interpretazione il grande seguito che Iside e i suoi misteri ebbero nel mondo greco-romano. Iside concepì Horus dopo la morte di suo marito. In questa concezione pare di vedere in nuce il mistero teologico della “verginità di Maria”.

L’altro aspetto di Iside è quello di maga. Una leggenda del ciclo solare presenta Ra come un sovrano terrestre che, invecchiato, camminava sbavando; dalla terra bagnata dalla saliva Iside trasse un serpente che punse Ra. Questi chiamò gli déi per riceverne sollievo ma nessuno vi riuscì. Iside si propose di risanarlo a condizione che Ra rivelasse il suo nome segreto, fonte della sua potenza. Ra tentò d’ingannarla dicendole svariati nomi, ma la dea non si lasciò ingannare e alla fine Ra rivelò il segreto. Iside divenne così la signora dell’Universo. Da tutto ciò Iside trae il suo carattere di divinità universale, fonte di vita e di potenza magica.

ORU. In Sardegna il culto di Iside fu poco noto. Lo fu invece il culto di suo figlio Ḥor, Ḥoru, evidentemente radicato ad opera del forte elemento egizio che nei miei libri (es. I Cognomi della Sardegna) ho messo in evidenza. Una chiara dimostrazione sta nel cognome sardo Santόru, che secondo Pittau DCS è sardizzazione dell’it. Santòro. Ma Pittau, lungi dall’avere talento per le etimologie, pecca sempre d’italianismo, ossia trova sempre nell’Italia di oggi ciò che avrebbe dovuto trovare nelle età arcaiche. Preciso che in Sardegna per Sant’Óru s’intende san Giòrgio (specialmente a Perdas de Fogu, dove c’è anche uno spuntone strapiombante sul Flumineddu, chiamato Bruncu sant’Óru). Occorre chiedersi perché in Sardegna ci sia una differenza fonetica incolmabile tra Giorgio e Óru. Questo fenomeno unico va spiegato tenendo sempre presenti le forzature fono-semantiche operate dai preti bizantini.

Per comprendere la questione va precisato che Giorgio-Giogli in mezza Sardegna rappresenta il Re del Carnevale, ossia il pupazzo oggetto di ludibrio che viene messo a morte la notte del Martedì Grasso. Vedi più su Giogli e il suo etimo. Egli un tempo rappresentò ovviamente il Dio della Natura. Quindi a Perdasdefógu quel “Giorgio” non fu altri, in origine, che il Dio della Natura, il Dio della Fecondità, della rinascita della Natura e del Creato. Non è un caso, infatti che l’attuale Santu Óru rappresenti la “santificazione” (avvenuta ad opera dei preti bizantini) di Urû, che in accadico è lo ‘Stallone’ per eccellenza, qualsiasi stallone, ossia ogni animale che monti una femmina per riprodurre la specie. Urû fu uno degli epiteti privilegiati del Dio della Natura e, guarda caso, fu anche il nome del dio solare egizio Ḥoro, Ḥor (eg. Ḥr), che appunto secondo i miti dominanti s’identifica negli déi solari Ra e Aton.

JERUSÀLEM, URUSALIM, (G)URUSÈLE(M)



GURUSÈLE. In Sardegna questo nome appartiene a due entità diverse. La prima entità è il Monte Gurusèle nel Supramonte di Baunéi, vetta calcarea superiore ai 1000 metri, la più alta del vastissimo altopiano. La seconda entità è tutto l'opposto: si trova allo zoccolo d'una valle calcarea di erosione, sotto l'abitato di Sàssari. Con Gurusèle a Sàssari si nominò la fontana più rinomata (oggi chiamata Rosello in italiano, Ruséḍḍu in dialetto), dalla quale, fino a quando mancò il servizio idrico, partivano carovane di acquaioli con gli asini carichi di botticelle, per rifornire d'acqua potabile le case della città. Le due entità accennate s'accomunano nella loro natura calcarea. Come Gerusalemme, che sorge su un monte calcareo. E così siamo a tre entità mediterranee, accomunate peraltro anche dall'etimologia.

Nell'indagine etimologica sgombrerei il campo dal monte Gurusèle, dalle cui falde discende il rivolo che poi diventa fiume e domina la lunga gola d'Ilùne (Códula d'Ilùne, altrimenti detta Códula di Luna). Ma dobbiamo pur soffermarci a rendere omaggio a tale gola, non solo perchè è intestata a Ilu (il Dio semitico della Luce: cfr. ebr. Eli), ma perchè al suo centro il fiume sparisce di colpo, viene inghiottito da un immenso inghiottitoio, in una località chiamata (non è un caso) Su Palu 'il phallos', che è l'emblema della dea Ištar, la paredra di Ilu-Eli, colei che riceve lo sperma divino nell'eterno ciclo di generazione-nascita-morte della Natura e del genere umano. Ištar non fu altra, in origine, che la Dea Mater Universalis.

Ma torniamo alla fonte Guru-sèle, che ha un nome composto, come Jeru-sàlem. Nell'analizzarlo parto dal secondo lemma -sèle, e lo metto in relazione proprio con Šalimu (il dio semitico della salute, notissimo anche in Sardegna). Ricavo quanto segue: Šalimu, come sèle, ha la base etimologica nell’accadico šâlu ‘rallegrarsi, godere di qualcosa’ quindi ‘star bene’ (da cui il latino sālus 'salute'). Ma in accadico abbiamo, con šalû (termine poco diverso), anche il concetto di ‘sommerso’ (da cui il concetto delle immersioni, dei “battesimi” fatti dalle antiche popolazioni nelle fonti sacre, che avvenivano per sommersione della persona).

Tornando a šâlu ‘rallegrarsi, godere di qualcosa’ quindi ‘star bene’, in accadico abbiamo, ad essa collegate, anche le forme salāmu ‘essere in pace’ (da cui le forme ebr. šālom ‘pace, salve!, stai bene!’, arabo salām ‘pace’). Osserviamo come sincronicamente, ossia nella stessa epoca, gli antichi semiti usavano spesso indifferentemente la /s/ e la /š/. Poiché il sardo antico aveva le stesse basi linguistiche, anche per (Guru)-Sele ammettiamo le due varianti. Analogamente possiamo esprimerci per il mutare della /a/ in /e/ tra le stesse lingue semitiche, e tra esse e quella sarda. Anche quest'aspetto fonetico non pone problemi, ed è ancor più giustificato dal fatto che il vocabolo Yerûšālaym ha la finale lunga e, stanti le leggi fonetiche latine, in Sardegna non possiamo meravigliarci se l'ebr. -ay- restò concrezionato in -ē-.

A proposito del dio cananeo Šalimu, ricordo che in Sardegna abbiamo anche un terzo sito nominato con questa radice semitica: è Bruncu Salámu, una vetta presso Dolianova significante, sempre in accadico, 'vetta della salute'. Non è un caso che le tre fonti che scaturiscono dall'altura di Salámu siano state, da sempre, oggetto di veri e propri "pellegrinaggi" di gente che ritiene quelle acque miracolose e comunque salutari, una delle quali curativa delle malattie biliari, l'altra delle malattie renali, l'altra delle gastriti.

Oltre ai significati sinora messi in evidenza, c’è dell’altro. Alla forma salāmu ‘stare in pace, star bene, essere in salute’ si abbina (lo si suppone già con la forma accadica šalû ‘sommergere’) una forma analoga e differente, che è l'accadico salā’u ‘spruzzare’ acqua (nei rituali di purificazione).

Ogni popolo ha la sua Lourdes; i Cananei ebbero la loro: Gerusalemme. Il celebre toponimo è noto in varie forme, secondo il popolo che lo scrisse. E così abbiamo ebr. יְרוּשָׁלַיׅם , gr. Ιερουσαλημ, ʿΙεροσόλυμα, lat. Jerusalem, assiro Urišläm, accadico Urusalim, Urusalimmu. Per l’etimologia il nome viene smembrato in ebr. יְרוּ* (*Iěru) ‘fondazione, insediamento di città’, da sum. iri ‘città’ + Šalam( שׁלם ) ) ‘dio della salute’, col significato di ‘città di Šalam’. Almeno è questa l'etimologia che riceve le sentenze di approvazione; sulle quali avrei però qualcosa da aggiungere.

Tutti sappiamo che Sàssari fu l'unico sito della Sardegna che fino a un secolo fa letteralmente "esplodeva" con miriadi di risorgive (oggi purtroppo l'asfalto ha impermeabilizzato l'intero territorio, e le fonti sono quasi secche). Dalla sua immensa bancata calcarea, doviziosa di risorgive, sortirono orti e giardini di ogni tipo, migliaia di appezzamenti piccoli e grandi perennemente irrigati, anche d'estate. La valle di Gurusèle, da sola, sfamava - quanto a ortaggi - l'intera città e l'immenso contado. Non è un caso che Sàssari significasse in origine 'immensa rete di orti' (da sumerico sar ‘giardino, orto; rete di orti’, reduplicata e semplificata per legge fonetica, a indicare la totalità: sa-sar- + lat. -is > Sà-sar-is).

Sinora avevo tradotto Guru-Sèle come ‘Fiancata, Burrone della salute’, per le falesie che dominano la fontana con 25 metri di dislivello (vedi il mio volume La Toponomastica in Sardegna). Inconsciamente, non cercavo e nemmeno ammettevo commistioni col sacro lemma di Gerusalemme. Ma adesso torno sull'argomento con meno timidezza, poichè vi riconosco delle identità schiaccianti. Avendo evidenziato le identità sardo-ebraico-semitiche nella seconda parte -sèle/-salām, ora mi tocca analizzare la prima parte del composto.

Abbiamo già notato come la totalità dei semitisti pone l'ebr.יְרוּ* (*iěru) come ‘fondazione, insediamento di città’, da sum. iri ‘città’, per cui l'intero lemma farebbe ‘città di Šalam’. Ma debbo anzitutto riconoscere che il celebre toponimo è noto in varie forme, secondo il popolo che lo scrisse. E così abbiamo ebr. יְרוּשָׁלַיׅם (Ierušālaym), gr. Ιερουσαλημ, Ἱεροσόλυμα, lat. Jerusalem (da cui it. Gerusalemme), assiro Urišläm, akk. Urusalim, Urusalimmu. Ebbene, si noti che in Sardegna la prima parte di questo doppio lemma è Guru- (non Ieru), con la gutturale Gu- evanescente, talchè l'idronimo sassarese è passato da Guru... a (Gu)ru... > (Gu)Ru-sèle > Ru-séll-u, infine Ru-séḍḍu in virtù dell'alveolare alternante alla doppia liquida (/ll/). Possiamo anzi osservare che l'esistenza della forma accadica Uru-salim, Uru-salimmu autorizza pure in Sardegna la presenza di un originario (G)Uru-... che in epoca moderna sboccò in (Gu)Ru-...

Ciò detto, possiamo senz'altro evidenziare l'identità originaria - differenziata secondo le diverse parlate mediterranee - di (G)uru-sèle, Uru-salim, Ieru-salem.

Questa concomitanza di sardo e accadico (peraltro usuale nella storia della lingua sarda, la quale fece parte della Grande Koiné Mediterranea prelatina) non autorizza comunque ad adagiarsi sull'etimo inizialmente evidenziato (Ierušālaym = ‘città di Šalam’). Il sito storico di (G)urusèle-Ruséḍḍu rimase per millenni distaccato dall'insediamento cittadino. Lo stesso accadde per Jerusalem (nome inizialmente dato alla grande fonte che poi rifornì la città). Anche la fonte di Gerusalemme in origine stava fuori dell'abitato. La risorgiva creava un laghetto che in seguito fu scavato e ampliato per creare il serbatoio idrico dell’intera città. Ma non possiamo chiamare 'città' un sito extra-muros. Sarebbe una contraddictio in terminis. In origine la gente andava alla risorgiva non solo per attingere acqua ma anche per immergersi e curare certe malattie: da qui la dedica a Šalimu. Lo stesso doveva accadere nella funtàna Gurusèle, che in origine quasi certamente fu una fonte sacra (sormontata dalla solita originale architettura nota tra le fonti sacre della Sardegna), la quale poi in epoca rinascimentale fu ricoperta da un superbo monumento marmoreo ornato di belle statue. La situazione di Sassari e quella di Gerusalemme sono (furono), mutatis mutandis, quasi identiche.

Fatta questa osservazione, non resta che indagare più a fondo l'etimologia dei due nomi di luogo, quello sardo e quello ebraico. Possiamo farlo soltanto appellandoci alle più antiche basi linguistiche di cui disponga la gente mediterranea, ossia al vocabolario sumerico, del quale l'intera Sardegna, e la stessa Sàssari, sono pervasi. E qui lo scenario cambia. Guru-Sèle e Ieru-šālaym si rispecchiano in un nutrito apparato di parole sumeriche. Per (G)uru- e Ieru- non abbiamo soltanto il sum. uru 'città', ma anche altre parole che porgono una valida alternativa etimologica, proprio in riferimento all'originaria "piscina" che dette il nome ai rispettivi siti, quale uru 'inondazione, diluvio', e inoltre uri 'vaso, recipiente d'acqua' (riferito alla piscina), urim 'puro' (in relazione al valore terapeutico dell'acqua: presso gli antichi il concetto di puro non si discostava da quello di santo, di taumaturgico), urim 'protettore' (epiteto riferito al dio Šalimu), ur 'protezione' (idem), urim 'malattia' (come epiteto finale: 'Šalimu delle malattie'), ur 'abbondante' (riferito alla fonte), ur 'strofinare, massaggiare' (riferito all'attività terapeutica praticata alla fonte), ur 'arti' (come epiteto finale: 'Šalimu degli arti', sottinteso: guaritore).

Lo stesso nome del dio Šalimu può essere analizzato in sumerico nelle seguenti componenti: šala 'pietà, clemenza, misericordia' (onde: Šalimu come 'dio della misericordia', verso i malati), oppure sal 'palo, phallos' (come epiteto di Šalimu; e in ciò vediamo una delle epifanie del Dio Sommo, quale supremo inseminatore della Natura; l'acqua fu sempre considerata lo sperma di Dio). In ultimo è lo stesso nome Salam o Šalimu a potersi smembrare ancora in due: sa 'mettere in ordine' + lam 'mettere in piena forma': sa-lam, col significato di '(colui che) risana e ridà la salute'.

L'abbondanza di possibilità etimologiche offerte dalla lingua sumerica (che è la più antica, ma anche la più garante, proprio per la sua antichità), ci rende ulteriormente cauti nella scelta dell'esito etimologico finale. Quale che sia l'opzione che abbiamo sul nome Šalimu, il lemma iniziale Ieru- o Guru- è sicuramente l'epiteto di Šalimu. Quindi possiamo tradurre Ieru-Šalimu e Guru-sèle come 'Salam protettore degli infermi'. Questo toponimo-programma non è nuovo nella storia toponimica dell'Eurasia e della Sardegna. L'isola è letteralmente piena di epiteti sacri riferiti alle varie epifanie del Dio Sommo dell'Universo: vedi i toponimi Bunnànnaru, Bonuighìnu, Bonacattu, etc.

 

                                                    SEZIONE TOPONOMASTICA SARDA
ICHNÙSA

I Greci ebbero la sorte di tramandare ai posteri molte opere scritte, e mediante esse hanno imposto la propria ragione presso gli studiosi dei moderni atenei, i quali a quei testi restano fideisticamente attaccati come all’unica verità. E così sembra a tutti lapalissiano che i nomi più antichi della Sardegna siano stati, in concorrenza tra loro, i seguenti quattro di tradizione greca: ̉Ιχνοũσσα, Σανδαλιοτίς o Σανδαλώτη, ̉Αργυρόφλεψ, Σαρδώ(Sardinia presso i Romani).

Ma intanto nessuno ha notato che la Sardegna, in tal guisa, ricevette una considerazione immensa nel mondo greco-latino, poiché l’essere chiamata in tanti modi (che in definitiva sono sei) non era indice di scarsa frequentazione dell’isola – com’è lamentela generale – ma il contrario: era segno che tutte le flotte del Mediterraneo conoscevano bene i suoi approdi, e ogni flotta individuava l’Isola con un nome preciso.

A quei tempi mancavano le convenzioni geografiche internazionali, e ogni popolo del bacino greco chiamava l’Isola al modo che le singole marinerie si tramandavano. La tradizione greca riporta tali versioni, che però vengono limitate (consapevolmente) a quelle che circolavano nel bacino d’utenza. Furono omesse quindi le versioni semitiche, per la ragione che la Grecia, nella colonizzazione del Mediterraneo, si trovò sempre in aspra concorrenza coi Fenici, dei quali bisognava occultare e contrastare gli interessi anche su questo piano.

Vediamo per esteso le versioni di parte greca (e conseguentemente di parte romana). Lo Pseudo Aristotele scrive: «Quest’isola, come sembra, una volta veniva chiamata Ichnussa ( ̉Ιχνοũσσα) in quanto il suo perimetro riproduce una figura di molto simile all’impronta di un piede umano». È la prima notizia in assoluto, tramandata nel IV sec. a.e.v. Plinio, N.H. III, scrive: «Sardiniam ipsam Timaeus Sandaliotim appellavit ab effigie soleae, Myrsilus Ichnusam a similitudine vestigii» (i due studiosi citati da Plinio sono del IV sec. a.e.v.). Sallustio, II, scrive nel I sec. a.e.v.: «La Sardegna, situata nel mare Africo, ha la forma di un piede umano».

Da scrittore a scrittore, ̉Ιχνοũσσα (o ̉Ιχνοũσα) e Sandaliotis furono i due coronimi più tramandati, e tutti gli scrittori li riferirono alla ‘impronta di un piede umano’ ( ̉Ιχνοũσα) o a un sandalo (Sandaliotis): vedi Silio Italico, Manilio, Pausania, Aulo Gellio, Solino, Esichio (Σανδαλώτη), Claudiano, Isidoro, Paolo Diacono.

Se ne discosta lo Scolio al Timeo di Platone: «Costui (Tirreno), salpato secondo un vaticinio dalla Lidia, giunse in quei luoghi (= nel mare Tirreno) e da Sardo, moglie di lui (prese nome) sia la città di Sardis nella Lidia, sia l’isola che prima era chiamata Argiròfleps ( ̉Αργυρόφλεψ) e adesso Sardinia (Σαρδώ)».

Non metterebbe conto fare osservare che il greco ̉ίχνος ‘orma, traccia’, originariamente ‘segno, figura’, corrisponde all’akk. šiknum (lat. signum) ‘figura, immagine’, ‘posizionamento’ del piede. Il termine è quindi mediterraneo, non solo greco. Comunque sia, il greco ̉Ιχνοũσα, in quanto ‘Sardegna’, non ha la base in ̉ίχνος (mi spiace deludere quanti ci hanno creduto): è invece una paretimologia. Ciò non toglie che il coronimo, impostosi con la nota semantica e per le ragioni suddette, sia stato creduto il prototipo che racchiude e dimostra tutta la verità. Una verità indiscutibile, a cominciare dall’assurdità che i Greci (o chi, se non loro?) avessero misurato accuratamente la forma dell’isola già qualche millennio prima dell’Era volgare, ossia da quando il coronimo esisteva per suo conto, e quando essi, in quanto popolo, stavano ancora in mente Dei. Per contro, dobbiamo concederci, una volta tanto, la licenza di osservare la questione dal punto dei vista dei Sardi proto-nuragici e dei Sardi nuragici, ai quali possiamo accordare che abbiano abitato l’isola di ̉Ιχνοũσα quando ancora il popolo greco non esisteva, in un’epoca in cui, oltre ad erigere i superbi nuraghi, gli artisti sapevano scolpire le statue di Monti Prama. Ebbene, chiediamocelo: i Sardi o Sardiani (o Shardana: nome caparbiamente rifiutato da chi non vuole comprendere) dovettero veramente aspettare la nascita del genio greco per chiamare ̉Ιχνοũσα la propria isola? O dovettero prima attendere le visite dei Fenici?

̉Ιχνοũσα è proprio una paretimologia. Basterebbe questo a dimostrarlo: quando il coronimo sortì, mancavano quattro secoli al talento matematico di Claudio Tolomeo (circa 150 post e.v.), il primo geografo ad aver descritto l’Europa e la Sardegna con procedimenti ed approssimazioni che saranno resi migliori soltanto dai geografi dell’Età moderna. I geografi greci (e latini) precedenti Tolomeo descrissero l’isola col sistema dei peripli e con misure assai discordanti tra geografo e geografo, comunque imprecise, ingestibili. Nessuno di loro riuscì mai a dimostrare nei fatti ciò che il toponimo ̉Ιχνοũσα pretendeva descrivere: l’impronta d’un piede umano, o di un sandalo (Sandaliotis).

̉Ιχνοũσα, ̉Ιχνοũσσα è una perfetta paretimologia, ed ha la base antichissima nell’akk. iqnû ‘lapislazzuli, turchese’, ‘smalto blu’ + -sû ‘the X-man’, in composto iqnû-sû > Iqnusa, che significa ‘l’uomo del Grande Verde’ e parimenti ‘quella (l’isola) del Grande Verde’.

Inutile nascondere l’evidenza: la Sardegna 3000-6000 anni or sono era nota come l’isola dei miracoli per la sua straordinaria feracità, per l’incredibile boscosità, per le numerosissime saline, per essere totalmente circondata da banchi di corallo rosso, per produrre enormi quantità di murici destinati alla porpora, principalmente era nota per le sue miniere. Non è un caso che sia stata chiamata pure ̉Αργυρόφλεψ, che in greco significò ‘dalle vene d’argento’.

La fama di “isola dei miracoli” spaziava specialmente nel bacino semitico, e non fu un caso che poi i Fenici si tennero stretta l’isola. Furono proprio questi, assieme agli Ebrei coi quali navigavano in stretto comparaggio, a dare all’isola un nome più appropriato alla visione del proprio mondo e della propria religione. La chiamarono Kadoššène, (Kadoš-Šēne = ebraico-fenicio ‘Madre Santa’). Precisamente kadoš ebr., qdš fenicio = ‘santo, sacro’; šn’ fenicio ‘maestro’ ma anche un certo tipo di ufficio (sacro). Nel fenicio šn’ sembrerebbe di poter cogliere quella che per gli Ebrei fu la Terra Santa, la Terra Promessa.

Questo termine in Sardegna rimase in uso fino a tutto il ‘700, ossia sino a tre secoli fa, con la pronuncia Cadossène, ed ancora oggi è ricordato, ed usato pure nelle insegne dei negozi (Nuoro).

Con ciò constatiamo che il coronimo indicante la Sardegna ha tre fonti: una sembra venire dal mondo greco, l’altra proviene senz’altro dai Fenici-Ebrei; la terza proviene senz’altro dai pre-Lidi, i quali con tale nome gentile vollero fare omaggio a Sardò, moglie di Tirreno. A ben vedere, Sardinia o Sardò è l’unico coronimo ad essere datato, poiché da Erodoto, I, 94, sappiamo quando i Lidi (pre-Lidi) mossero, guidati da Tirreno, verso il Mediterraneo occidentale.

Dicevo che una delle tre fonti “sembra venire dal mondo greco”. Sembra, ma non è. Ai Greci, mirabili contraffattori di nomi e toponimi altrui, fu facile credere che Ιχνοũσα, Σανδαλιοτίς significasse ‘quella dell’orma’, ‘quella del sandalo’, e rafforzarono tale illusione per il fatto che i naviganti fenici dicevano Kadoššène. Essi sapevano che in semitico -šēn significava pure ‘sandalo’ (così è l’akk. šēnu ‘sandalo’), e sapevano che l’akk. šiknum (lat. signum) ‘figura, immagine’, ‘posizionamento’ del piede, rafforzava la propria intuizione; onde gli fu facile intendere l’akk. iqnû-sû > Iqnusa come ‘orma del piede’, anziché nel suo vero significato di iqnû ‘lapislazzuli, turchese’, ‘smalto blu’ + -sû ‘the X-man’, ša ‘colei che’, in composto iqnû-sû, iqnû-ša > Iqnusa, ossia ‘quella (l’isola) del Grande Verde’.

Così andò la questione nei bacini marinari frequentati dai Greci, e, gravida di tale equivoco, l’autorità dei Greci ebbe presa pure nel mondo romano.

Resta da chiarire perché l’akk. Iqnuša significa ‘Isola del Grande Verde’ (o ‘Quella del Turchese, del Lapislazzuli’). Semplicemente perché in epoca arcaica, quando tutto lo scibile delle antiche civiltà aveva un senso, la Sardegna era nota in tale modo. Isola del Grande Verde era un coronimo antonomastico, poiché l’isola era incastonata al centro del Mediterraneo (chiamato il Grande Verde), lontana da ogni costa, distante ma attrattiva per tutte le sue ricchezze.

Il Grande Verde: così lo chiamavano pure gli Egizi. E quando descrissero i Popoli del Mare, affermarono sempre che provenivano dal Grande Verde, da loro detto Uatch-ur, ‘the Great Green water’, ossia il Mare Mediterraneo. A saperlo interpretare foneticamente, l’egizio Uatch-ur è la base etimologica da cui deriva pure il ted. Wasser e l’anglosassone water. Parola mediterranea e pan-europea, questa, che però non replicava, se non nella semantica, il modo in cui gli Accadi, gli Assiri e i Babilonesi chiamarono per proprio conto il Mediterrraneo: Iqnû-sû ‘quello (il mare) del Lapislazzuli’.

Per il resto, gli Egizi seppero distinguere bene quando indicarono le varie parti del Mediterraneo. Quindi scrissero pure Uatch ura āa Meḥu, the ‘Very Great Green Water of the North Land’ i.e., the Mediterranean Sea; ma scrissero Uatch ur ḥau nebtiu ‘the Ionian Sea’, con una evidente distinzione.

Dopo questa ampia disamina della questione, ora sappiamo la vera origine di Ichnùsa. Ed abbiamo guadagnato finalmente pure una seconda certezza: che i celebri Shardana, gli invasori del Delta, uno dei Popoli del Grande Verde, non potevano che avere la propria base in Sardegna, a dispetto degli stuoli di archeologi che ancora lo negano a vantaggio della Sardi anatolica.
BONACATTU

È anzitutto un cognome (così sostiene Pittau, ma proprio a Cagliari, luogo da lui citato espressamente, non esiste). È invece un nome personale. In ogni modo, secondo lui, deriva dalla denominazione di Nostra Signora de Bonacattu, venerata a Bonàrcado. Secondo lui, Bonacattu costituisce una etimologia popolare di Bonàrcado, interpretato come bonu accattu ‘buon ritrovamento’, ma che in realtà deriva – sempre secondo Pittau – dal bizantino Panáchrantos ‘immacolata, purissima’. Si sa che questa strampalata etimologia non è farina del sacco di Pittau (egli è solo l’acritico portavoce) e viene da lontano, prodotta da una messe di linguisti i quali, dietro la “intuizione” del primo ricercatore, si sono infilati e intruppati senza più voler rischiare di mettere al lavoro la propria cultura.

Autorevole sistematrice e stabilizzatrice di questa paretimologia è Carla Marcato (Dizionario di Toponomastica 85-86, ed. UTET), la quale, partendo dal fatto che nel condaghe di Bonàrcado il toponimo figura nelle varianti Bonarkanto, Bonarchanto, Bonarckanto, conclude: «Si tratta di un nome di origine greco-bizantina, da Panákhrantos, immacolata, purissima’, attributo della S.Vergine Maria venerata nel citato santuario del luogo. La presenza di b in luogo di p, frequente nei prestiti greco-bizantini, ha favorito la successiva e recente interpretazione del toponimo come Bonacattu ‘buon ritrovato’, in connessione con una leggenda secondo la quale un’immagine che raffigura la Madonna col Bambino sarebbe stata trovata da un cacciatore tra i cespugli che circondano il santuario». Il tramandatore di questa rassicurante favola è il professor Giulio Paulis, noto cattedratico di linguistica sarda, collega della Marcato.

È singolare che i linguisti siano arrivati a sancire una paretimologia addirittura con una favola. Non è la prima volta. A tanto invece non si è spinto il prof. Francesco Cesare Casula, che nel suo Dizionario Storico Sardo si è attenuto esclusivamente al metodo scientifico, scrivendo che «il toponimo [Bonàrcado] potrebbe derivare dal greco-bizantino pan ‘tutto’ e árcados ‘senza macchia’, oppure direttamente da Monarcanto, così come lo troviamo scritto in qualche documento medievale». Rendiamo grazie al Casula per averci dato una quarta forma di rappresentazione del toponimo Bonarcado. Egli non parla affatto di Bonacattu. Ed infatti il condaghe di Bonàrcado non cita Bonacattu tra le varianti che nominano il sito (vedi CSMB, ristampa del testo di Enrico Besta riveduto da Maurizio Virdis), cita semmai Bonarcatu, Vonarcatu e simili.

Eppure la forma Bonacattu e relative varianti (prevalsa da secoli – o da millenni? – tra i residenti, e rafforzata dai nomi personali di molte persone originarie del luogo) è senz’altro una forma storica, quella che dà più affidamento nella ricerca. Quindi è storico ed affidabile il sintagma Nostra Signora de Bonacattu. Occorre capire, a questo punto, perché i linguisti abbiano messo in relazione Bonacattu con ‘buon ritrovato’, rafforzando il tutto… con una favola. La loro risposta è inappellabile: la favola esiste, e il significato è questo; un fatto corrobora l’altro, non ci sono altre interpretazioni. Il carapace della loro cultura è inespugnabile. Così sentenziano. Siamo all’assurdo kafkiano.

Chi l’ha detto che Bonacattu significhi ‘buon ritrovato’? E nel passato, si è mai tentato di indietreggiare, di immergersi, di sondare? Bonacattu non può essere una paronomasia? Nessuno ha mai riflettuto sul fatto che, alla base delle vestigia del primo tempio bizantino, esistono vestigia più antiche, e che lo stesso Francesco Cesare Casula cita l’ipotesi degli archeologi, secondo la quale il primo santuario fosse quello di san Giorgio?

E, se fosse vera la primazia di san Giorgio, nessuno ha mai riflettuto sul fatto che in Sardegna è stato proprio san Giorgio a sostituire il “santo” precristiano celebrato e venerato ai primi dell’Anno? Insomma, si sa o non si sa che san Giorgio non è altro che il sostituto dell’antico Dio della Natura, quello tanto celebrato nel periodo di Carnevale col nome di Giògli? (vedi alla Sezione dei Carnevali).

Altro che ‘buon ritrovato’! Bonacattu è una paronomasia. In origine fu un composto rituale sardiano, una giaculatoria, il ritornello di un inno sacro, basato sull’akk. būnu ‘bontà d’animo’, ‘espressione’, ‘buone intenzioni’ + kattû(m) ‘che rafforza, corrobora’. Questo è un classico appellativo rivolto al Dio della Natura, ed il suo primo membro (Bonu-, Bona-) è lo stesso che nomina il santuario di Bonu-Ighínu, da tutti incredibilmente tradotto come ‘Buon Vicino’.

Infatti l’etimologia di Bonu Ighínu va cercata partendo dal fatto che il luogo fu considerato sacro fin dall’Età della Pietra. Il mistero dell’etimo sta quindi nella sacralità del sito. Per Bonu abbiamo l’akk. būnu ‘viso’ di Dio, ‘favore, buona intenzione’ di Dio. Per Ighínu abbiamo il composto accadico igû ‘principe, leader’ + innû ‘nostro’ (pronome possessivo). Bonu-Ighinu in origine fu anch’esso una giaculatoria, quindi un epiteto, rivolto al Dio della Natura per impetrare grazie. Da qui divenne tout court un titolo: Bonu-ighinu = ‘principe nostro dalle buone intenzioni’. Un sintagma che esprime né più né meno quanto viene espresso verso tantissimi Santi o Madonne della religione cattolica. Non a caso a Bonarcado s’intende attualmente per Bonacatta ‘Quella del Buon Ritrovo’: un sintagma, insomma.
CAGLIARI

L’aiuto dato nel II secolo e.v. da Tolomeo per identificare le popolazioni senza città distribuite in Sardegna ha un certo valore storico-geografico, ma i problemi posti da alcuni etnici e dalle supposte dislocazioni restano. I Korakénsioi stavano nell’estremo nord, perché a partire da là sono citati come terzi dopo i Tibulati ed i Corsi; ma è poi difficile capire se stessero sul golfo di Olbia o su quello di Alghero. Meloni (SR 314) non aiuta nelle ipotesi, ma qualche certezza la dà l’etimologia, dal sumero korra ‘porpora’, accad. kurru ‘tanning fluid’ + accadico kinšu ‘capanna rotonda’.

Sembra di capire che il nome di questo populus, al pari di molti altri, sia stato attribuito per una funzione svolta nel territorio. Si trattava di pescatori di porpora abitanti in capanne rotonde. Korakensioi è un buon relitto storico-linguistico, ed è opportuno localizzarlo in un golfo tipo quello di Olbia, che migliaia di anni fa si presentava come un fiordo in riempimento, quindi con bassi fondali in certe parti, adeguato alla pesca dei molluschi da porpora. Viceversa potremmo pensare che Tolomeo non mirasse a un rigoroso elenco nord-sud. In tal caso i Korakénsioi potrebbero essere collocati presso le vaste lagune costiere del Sinis, ricchissime di molluschi da porpora. Così sistemati i Korakénsioi, potremmo dar corpo a una triade occidentale con Kornus (l’antica città presso S.Caterina di Pittinnuri che potrebbe anch’esso avere il nome dalla porpora (korra) ma potrebbe pure avere il nome da accad. qarnu ‘corno’ (sempre con riferimento alla particolare sagoma dei muricidi. Il terzo referente della triade occidentale sarebbe Koracodes, il porto di Kornus, situato presso Putzu Idu (Sinis), che sembra ugualmente legato alla porpora, a meno che non sia legato ai Korakénsioi.

Se Coracódes può essere visto come un classico porto d’imbarco delle prodigiose quantità di porpora raccolte in Sardegna a beneficio dell’industria manifatturiera fenicia, Cagliari può essere visto come un classico porto d’imbarco del corallo: nomen omen. Cagliari infatti ha il nome babilonese del corallo: Karallu, che significa per antonomasia anche ‘gioiello’, ma per astrazione non poteva che significare (sempre in babilonese) anche ‘felice, beata, fortunata, ricca, splendida’, con una semantica identica a quella espressa in greco dalla città di ’Όλβια. Cagliari e Ólbia, dunque, come porti shardanici d’esportazione delle inverosimili quantità di corallo raccolte lungo le coste sarde in ogni tempo, se è vero quanto attestano per la Sardegna tutte le fonti storiche antiche e moderne.

I Romani su Karallu non hanno prodotto alcuna paretimologia, e nemmeno la traduzione. Semplicemente hanno corretto la doppia liquida, poiché consideravano le doppie shardane per quelle che talora erano (specie al sud), ossia un appesantimento fonetico di antiche semplici. Onde Karallu divenne prima Karális, con la liquida semplice e col suffisso latino -is. Poi per legge fonetica latina l’accento fu retrocesso (Kàralis).

Cagliari oggi si presenta come una città senza territorio, considerato che le estensioni di superficie tutt’attorno appartengono ai paesi contermini. Ma Cagliari non ha mai avuto territorio: è come Washington. Ciò è la spia d'una vocazione, che non era agraria visto che i sette colli di Cagliari a quel tempo erano in parte circondati da lagune, ed il più lontano Monte Urpínu, a somiglianza di altre alture dell’isola come il Marganái (da babil. margānum ‘resinous bush; also its resin’), pare avesse la base etimologica nell’accad. uru ‘albero’ + lat. pīnus ‘pino’, col significato di ‘albero di pino’, a indicare una collina abbandonata dove la natura, oltre all’ubiquitaria palma (nana o procéra) sparsa in tutte le coste isolane, favoriva la crescita di boschi di pino. Poiché l’accad. uru significa anche ‘palma’, non è strano che sul colle ci fosse un bosco misto. Peraltro la vocazione territoriale fu sempre curata nei toponimi dei nostri progenitori, e così Molentárgius, che le paretimologie attuali danno come ‘campi per asini’, ha la base accadica in mulûtu ‘dominio’ + arḫu ‘vacca’ (> mulût-arḫu > *molu(n)t-arxu > molent-árgius) col significato sintetico di ‘dominio di vacche’.

La vocazione di Karallu era triplice: 1. la lavorazione e l’esportazione del corallo sardo, anzitutto; e dalle immense lagune sortivano altre due vocazioni: 2. is buccònis, un incredibile bottino di murici da porpora il cui guscio, pre-lavorato ed esportato, determinò la fortuna della fenicia Tyros; 3. il sale estratto ad est e ad ovest, sui bordi delle lagune della capitale, vero oro bianco, moneta internazionale di scambio, dollaro ed euro dell’alta antichità.

Karallu era una città commerciale e di prima trasformazione che consentiva ai Fenici di riempire le non capaci stive di merci impreziosite già prima della lavorazione finale compiuta a Tyros.

Ma l’economia di Karallu era triplice per modo di dire. In realtà era molteplice. Dove mettiamo le sardine sotto-sale impacchettate per l’esportazione? Col monopolio delle saline Karallu era in grado di salare e vendere enormi quantità di pesce azzurro, non a caso divenuto celebre col termine assiro sardum ‘pesce impacchettato’ (sottinteso: impacchettato in Sardò, in Sardinia). Le ceste per l’impacchettamento dovevano essere di asfodelo, una pianta che ha mantenuto ancora oggi il nome babilonese ḫarbūtu.

Karallu doveva essere pure esportatrice di tutte le derrate conservabili prodotte nelle colline e nelle montagne vicine, quali vino, lana, pellami grezzi e conciati, formaggi, prosciutti, miele, idromele, cera, arnie; ed in più legna per l’edilizia, legname per costruzioni navali, carri da tiro, scandole, tegole, prodotti della figulina, artigianato del legno, stuoie, fruste, eccetera; ed ancora, animali vivi.

Per accertarsi che la Sardegna fosse celebre per le produzioni montane, basta leggere l’Angius, e si conoscono, ad esempio, le prodigiose quantità di selvaggina (per citare solo merce fresca) trasportate ogni giorno dalle montagne di Uta e di Sìnnai al mercato della capitale. I linguisti non hanno mai dato risalto alle parole d’uso internazionale nate in Sardegna. Oltre alla sardina, al corallo al sale ed altre merci che non cito c’è il Pecorino romano, da tutti ipotizzato, senza criterio, come un pecorino la cui manifattura fu insegnata ai Sardi dai Romani. Qualcuno dovrebbe spiegare perché i Romani fossero stati i bonari maestri elementari dei montanari (gli Ilienses) che in ogni libro di storia appaiono come quella cospicua tribù di Sardi respinta sulle montagne a recitare l’odiosa parte di rompiballe degli eserciti d’occupazione. La contraddizione non lo consente.

In realtà il Pecorino Romano ha la stessa etimologia del paese logudorese di Romana e della collina sassarese detta Rumanedda, che non è un aggettivale riferito ai colonizzatori di 2000 anni fa, ma un aggettivale d’altura, derivato dall’ebraico rōmēm ‘elevato’, rūm ‘altezza, altitudine’. Pecorino Romano significa dunque ‘Pecorino delle montagne’, ‘Pecorino prodotto dai montanari’, da quei rompiballe di Ilienses. E l’etimologia ebraica la dice lunga sulla mescolanza etnica dei montanari, formata in buona parte dai Galilei (Galilla, Galillenses) entrati in Sardegna in una prima ondata assieme ai Fenici, già ai tempi di David e Salomone.

A città importante, porto importante. Il primo porto doveva essere sul bagnasciuga della Scaffa, cordone sabbioso ad ovest dell’abitato. Scaffa è inteso maldestramente come ‘barca piatta’ utilizzata per il trasbordo delle merci dalla spiaggia alle navi o viceversa. Ma questo è un termine seriore, e comunque adatto alle marine dove il pescaggio delle navi non consentiva l’attracco ed erano necessarie le barche da trasbordo. Il termine più antico è dal bab. kuppu ‘cisterna (nel senso di scavo per contenere l’acqua)’.

Ci tornerò. Qui rilevo che Scaffa è già un toponimo seriore rispetto a Santa Gilla. L’esigenza di trascinare certe navi alle placide acque della laguna di Santa Gilla, 100 metri oltre la linea marina, era così forte che, secondo l’uso invalso nel Mediterraneo (vedi l’istmo di Corinto, il tratto tiberino da Ostia a Roma…), s’usarono degli ‘uomini-rimorchiatori’, chiamati in babilonese agīlu; che poi diventò Gilla e poi Santa Gilla (interpretata, incredibilmente, come Cecilia). Agīlu è il primo segno che il porto shardana stava cominciando a industrializzarsi. Scaffa è il segno della seconda industrializzazione, quando si tagliò la duna. Igia è il segno della terza industrializzazione. Anche Igia non fu né donna né santa, come invece pretesero quei furboni di preti bizantini, che nell’evangelizzazione della Sardegna ne fecero di cotte e di crude, beninteso quanto a toponomastica (essi furono veri maestri della paronomasia, come si scoprirà nel libro Toponomastica Sarda: altro che paronomasia degli antichi Greci! Se metà dei toponimi attuali della Sardegna sono corrotti, volutamente corrotti, lo dobbiamo al clero bizantino).

L’accadico īgu ha lo stesso significato del babilonese kuppu (Scaffa) e nel medioevo divenne Igia (poi Santa Igia, confusa a bella posta con Santa Gilla, tanto perché l’intreccio e l’impasto chiudesse la faccenda con una pietra tombale). Igia-īgu denomina proprio il sito dove stavano i fondachi fenici (lo stesso sito dove si reinsediò la Càlaris medievale). Il canale sotteso al nome īgu dovette essere il prolungamento di quello primitivo della Scaffa, e fu quello che conduceva al porto fenicio a noi noto.

A porto importante, traffico importante. A Karallu arrivavano navi dell’intero mediterraneo. Le voci ed i rumori dovevano essere vivaci. Non erano i rumori ossessivi che fecero esclamare a Marziale Tota Urbs est ad cubile! nel periodo della costruzione del Colosseo, allorquando i carri carichi di massi, a ritmo infinito, passavano davanti al suo uscio togliendogli il sonno. No, il chiasso di Cagliari era diverso, e per evitare il trambusto era stato creato un sito extra muros, un po’ come facciamo oggi per le discoteche. A gridare erano le prostitute sacre.

Il concetto di creazione nell’antichità era d’una importanza che neppure immaginiamo. La donna sterile era maledetta, pure gli animali sterili, gli alberi sterili. Gesù maledisse un fico sterile. Il concetto di creazione operò una suddivisione storica dalla quale sortirono due civiltà. Ebrei, Greci e Romani si fermarono prima del limite, e non consentirono che loro donne, per onorare la dea della fertilità, si dessero alla prostituzione. Questi tre popoli dettero origine alla cosiddetta Civiltà Occidentale, della quale siamo eredi. Ma i Sardi ne sono eredi adesso, non lo furono nel passato.

I popoli semitici, esclusi gli Ebrei ma inclusi gli Anatolici, ammisero e favorirono la prostituzione, che fu sacralizzata per essere meglio governata. I Sardi o Shardana ammettevano la prostituzione sacra perché, ai tempi dei Popoli del Mare, essi (che erano un Popolo del Mare) si erano mescolati e avevano coabitato con i superstiti di Ugarit, i futuri Fenici. In Sardegna c’erano oltre 17 siti di prostituzione sacra, forse venti. Nel libro Toponomastica Sarda discuto tale quantità, riferita soltanto a 1900 toponimi analizzati, non alle decine di migliaia di toponimi rilevabili. La pletora dei lupanari non fu creata dai Fenici, per quanto anch’essi fossero favorevoli. I lupanari c'erano dappertutto, in Sardegna, e sono proprio i toponimi a fungere da traccia storica per far capire quanto fosse ampia e trafficata la rete stradale degli Shardana, anche nelle montagne. A Cagliari c’erano addirittura tre siti di prostituzione. E non poteva essere diversamente. Erodoto, I, 94 e passim, ricordava che tutte le donne prima del matrimonio dovevano prostituirsi, darsi allo straniero di passaggio. Cagliari, il porto più frequentato dell’isola in epoca fenicia e punica, dislocò tre templi, uno a Capo Sant’Elia, uno a Su Siccu alla base dell’attuale chiesa catalana di Bonaria, uno a Lapola alla base dell’attuale chiesa di Sant’Eulalia. Lapòla deriva dal babilonese labu ‘urlo, belato, richiamo’, e furono certamente i preti bizantini, scandalizzati dalla pubblicità fatta in tal modo all’antico tempio di Astarte, a ordire persino la cancellazione del termine. Che però non riuscì; ma almeno, nell’erigere una chiesa sopra il sito del peccato, vinsero nel dargli il nome greco Eulalia, che il popolo accettò perché anch’essa, come Lapòla, significava ‘ciarliera’. I Catalani poi non fecero altro che migliorare la chiesa, che trovarono già dedicata, senza pretenderlo, alla patrona di Barcellona.

Per quanto attiene a Su Siccu, il sito originario dovette essere l’altura calcarea oggi dominata dalla chiesa catalana di Bonaria (l’attuale sito pianeggiante ai suoi piedi – Piazza dei Centomila e dintorni – è chiamato Su Siccu per estensione, essendo un tratto di mare riempito con le macerie dei bombardamenti della Seconda Guerra mondiale).

L’origine del toponimo dovrebbe essere (come per i toponimi Sicci, Siccaderba e Segossini) dal babilonese sikkum ‘bordo, margine’, da interpretare come ‘molo, linea regolare di battigia (ai piedi del colle)’: non a caso vi approdò la flotta d’invasione iberica nel 1323. Va rammentato che ai tempi dei Fenici questo sito doveva essere poco o punto antropizzato (esclusa forse l’esistenza di un’area cimiteriale). Se attività c’erano, esse erano al servizio della vicina salina, per l’ammasso del sale destinato all’imbarco. In ogni modo lungo il litorale doveva passare una strada che da Karallu (Cagliari) procedeva a sud transitando per Lapola, con capolinea al tempio di Venus Ericina sul Capo S.Elia.

Venus Erycina (la Venere o Astarte di Erice) godette d’un culto molto esteso, tanto ch’era adorata persino a Cartagine, esattamente a Sicca Veneria, borgo fondato dai Siciliani alla sommità d’un rilievo alto 770 m presso la casbah di El Kef, da cui proviene una statua di Venere. «Il culto africano di Venus Erycina è documentato specialmente nella narrazione di Eliano relativa al trasferimento della Dea di Erice per nove giorni ogni anno, in Africa, e del suo ritorno in Sicilia. Valerio Massimo aggiunge la notizia della prostituzione sacra a Sicca Veneria» (Raimondo Zucca 771-779: L’Africa romana VI. Atti del VI convegno di studio, Sassari, 16-18 dicembre 1998 – Edizione Gallizzi, Sassari, 1999). «Anche per la Sardegna dobbiamo ammettere una derivazione siciliana, mediata dai Punici, del culto dell’Erycina, documentato in modo diretto in una iscrizione punica di Carales. Il tempio di Aštart ericina di Carales venne scoperto nel 1870 da Filippo Nissardi alla sommità del promontorio di S.Elia… presso la torre omonima. All’interno [del tempio ridotto alle fondazioni] era applicata una lastra in calcare frammentata, con iscrizione dedicatoria ad Aštart Ericina, in punico». «Le dimensioni ridotte dell’epigrafe denunziano evidentemente il carattere privato del voto, secondo il modulo noto ad esempio nel tempio di S.Nicolò Gerrei (Cagliari) dove un Cleon salari(us) soc(iorum) s(ervus) dedit Aescolapio Merre un altare in bronzo» (Zucca: idem).

Sono grato a Raimondo Zucca delle preziose note, ed altrettanto grato all’archeologa Carmen Locci che me le ha fornite ed illustrate. Ciò mi consente d’ipotizzare, a sud di Karallu, un terzo sito di prostituzione sacra, oltre a quello di Lapòla e di Capo S.Elia, un sito incastonato probabilmente dove fu poi edificata la chiesa catalana di Bonaria. Non dovrebbe meravigliare più di tanto una pletora di lupanari in quel di Karallu, considerato che, intanto, tutte le donne dovevano prostituirsi almeno una volta prima di convolare a nozze (leggi Appendice: Cagliari, Lapola e Semiramide nel volume “Toponomastica Sarda”). Mi è forza insistere sulla tesi del terzo lupanare, non tanto e non solo per la ripetizione in terra sarda di un toponimo (Siccu) pressoché identico a quello del territorio cartaginese (Sicca), ma perché ancora oggi in Sardegna sopravvive un gesto “volgare” chiamato proprio sicca (altrove ficca) o meglio, al plurale, siccas, ficcas. Il gesto si fa infilando il pollice tra l’indice e il medio, stringendo il pugno (anzi i due pugni, per raddoppiare l’effetto) e puntando le siccas contro la persona interessata, o contro il cielo in segno di maledizione.

Per la verità, le siccas non sono sempre dei gesti maledicenti: oggi spesso lo sono, ma ancora più spesso sono apotropaici; un tempo dovevano essere soltanto segni apotropaici. Ciò dimostra che, dopo quasi duemila anni, il popolo, redarguito dal clero cristiano, è ancora indeciso sulla finalità delle siccas. Dobbiamo ricordare che, nella ritualità antico-romana e mediterranea in generale, fare la sicca e toccarsi con essa la fronte (meglio: fronte-bocca-petto, proprio come oggi si fa il triplice segno della croce) era un gesto propiziatorio rivolto – al solito – alla divinità che sovrintende alla fertilità ed alla vita sul pianeta.

Che la sicca indicasse, schematicamente, un organo sessuale, è chiaro. Ma va chiarito quale. La sicca è fatta principalmente dalle donne. Poiché gli uomini – oggi ed anche in epoca romana – usano ed usavano fare lo stesso gesto con altre dita (il medio dritto e tutte le altre dita piegate, in modo che risalti lo schema d’un pene eretto), è chiaro che le donne con la sicca intendevano esprimere la vulva, dove il pollice appena emergente dal pugno indica il clitoride ch’emerge dalle grandi labbra.

Questo stupefacente impasto di gesto, di toponimo, di storia sacra mediterranea è una interessante sopravvivenza che il clero cristiano è riuscito (non del tutto) a cancellare. Sembra ovvio che la Sicca in epoca cartaginese rappresentasse sinteticamente, per tutto il popolo sardo, proprio il culto di Aštart d’Erice. Infatti la sicca/ficca sopravvive ancora oggi in tutta la Sardegna.

Tutto questa disamina non deve far dimenticare che nella Sardegna interna vige ancora oggi, con lo stesso significato, il termine friscas, dove si scorgono dei significati convergenti con quelli qui esaminati, ma in più sembra di poter scorgere le arcaiche fasi del sacrificio dei bambini. La base etimologica è l’accad. per’u ‘germoglio, rampollo, discendente’ + isḫu ‘assegnazione’ di offerta. I due termini accadici, uniti in stato costrutto e soggetti a metatesi, dànno un quadro tenebroso e allucinante per noi moderni, ma sembra che lo stato costrutto per’-isḫu > fr-isca sia da interpretare nell’unico senso consentito, ossia come ‘assegnazione, destinazione del primogenito alla divinità’. Questa è una delle tante dimostrazioni, ottenuta per via linguistica, del fatto che gli antichi Semiti destinavano i primogeniti alla divinità.

Quanto a Mammarrànca, il lunghissimo canale che comincia dal territorio di Monserrato e sbocca nel mare di Cagliari, ha la base nell’accad. māmū ‘acqua’ + arraku ‘molto lunga’ col significato complessivo di ‘(via di) acqua assai lunga’. Era la via d’acqua che da tempo immemorabile, sicuramente dai tempi nuragici, i salinieri praticavano per portare il sale all’imbarco.
CALA MOSCA

È il nome dell’insenatura a sud della città di Cagliari, presso capo S.Elia.

Questa bellissima cala-insenatura, costituita da calcare bianco e spiaggia di sabbia bianca, ha un nome che popolarmente viene interpretato come ‘Cala della mosca’. Il che non ha senso.

In realtà il toponimo è sardiano con base nell'accadico. Sappiamo che kālû indica il 'molo naturale’, la ‘diga naturale' (oltre a quella artificiale), ed è il nome di tutte le cale della Sardegna, costituite da una falesia non troppo alta, l’erosione delle quali dà luogo ad una spiaggia. A sua volta Mosca ha la base nell’akk. muškû ‘mangia-serpenti’, nome di un uccello di rapina. Ovvio immaginare che millenni addietro questa cala, non troppo lontana dalla città, fosse la sede privilegiata, in virtù delle falesie che si alzano vertiginosamente a est e ad ovest, del ‘falco di Eleonora’, valido concorrente dei gabbiani nella caccia ai pesci costieri.
DORGÁLI


DORGÁLI comune della Baronìa-Nuorese. In epoca romana ci passava la strada strategica ancora oggi nota come “Orientale Sarda”. Allora il borgo era chiamato Vinìola ‘la città delle vigne’ e sorgeva a nord dell’attuale paese, nella vallata dello Spirito Santo in regione Golléi. Secondo una tradizione riferita da La Nuova Italia (il dizionario commerciale, amministrativo, statistico del 1901), Dorgáli sarebbe stato fondato da certo Drugal e la sua popolazione sarebbe di origine saracena. Il toponimo è rammentato in RDSard. a. 1341 come Dorgali. Carla Marcato DT imposta sul toponimo la seguente discussione: Il Serra lo attribuirebbe “al greco-bizantino δρυγγάρι(ος) ‘comandante di una squadra dell’esercito’ attraverso *drugari, *durgari, *durgari, durgali e Dorgali con lo scambio di u con o protonica davanti ad r e con l’esito ng > g che avviene in taluni dialetti greci. L’ipotesi si fonderebbe sul fatto che la località sorgeva in zona d’importanza strategica già in epoca romana e perciò in epoca bizantina si può pensare a una stazione militare, ad uno stanziamento di un reparto presieduto da un δρυγγάριος che avrebbe lasciato il nome al borgo stesso. Ma sulla bizantinità di Dorgáli solleva dubbi Paulis 1983, 79; in particolare egli ritiene improbabile un’evoluzione di ng > g che presuppone uno sviluppo parallelo di nt > nd > d che invece non si verifica; ad esempio il greco bizantino κοντάκι(ον) ha dato in sardo condághe… Ed inoltre, se si considera che nel territorio di Urzuléi si trova un idronimo Riu Dorgone forse preromano, appare più plausibile attribuire anche Dorgali ad una base toponimica paleosarda”.

Grato ai tre linguisti d’aver sistemato le ipotesi e, nell’impossibilità di procedere, d’aver fatto un salutare voto prudenziale, cito ora Pittau, che in LSP 76 afferma l’esistenza di due lemmi sardi, turga e túrgalu (anche thurgálu) che significano ‘carne dura o troppo grassa’ ed anche (secondo i paesi) ‘trogolo scavato in un tronco; canale, canalone; spaccatura nel suolo; solco scavato sul terreno dall’acqua piovana; rigagnolo temporaneo; scroscio d’acqua, acquazzone; corrente d’aria’. Interviene anche Sardella LSCN 82 ricordando il toponimo Drugalis in territorio di Ìsili, che rispetto al più noto presenta – afferma ironicamente – solo “il particolare insignificante della metatesi”. Col sopravvento del toponimo del Sardella saltano ovviamente sia la storiella de La Nuova Italia sia il “bizantinismo” del Serra. A Baunéi il lemma significa anche ‘trogolo dell’acqua’ (Wagner), ma lo stesso Wagner diffida tutti dall’accostare il lemma túrgalu, dhurgálu all’italiano ‘trògolo’, perché “già le forme centr. con θ- consigliano di considerare le voci come probm. preromane”.

Mi permetto di oppormi al rigido schema fonetico del Wagner. La mia esperienza mi rende cauto (e paradossalmente libero) nel trattare i nomi ed i toponimi in θ- o -θ, che non vanno considerati in blocco come preromani o protosardi. Infatti questo fonema è uno dei più indefinibili nel sistema fonetico sardo, essendo ancorato non solo alle radici preromane ma anche a modi fonetici sciatti, indecisi od appiattenti, dove spesso la θ- prevale rispetto alla t-, alla -t- o alla -tt- per vezzo paesano o addirittura per vezzo individuale (quando non per totale ignoranza della forma da parte del pronunciante). Il fenomeno s’estende dalla Barbagia al Nuorese, dal Montiferru al Logudoro. La prova sta proprio nello stesso toponimo Durgáli, che non presenta affricate.

Sarebbe confortante (e conclusivo) attribuire il toponimo Durgáli ad un fenomeno meteorico-paesaggistico, riferito proprio al ‘solco scavato dall’acqua che scende sfrenata dal monte’, alla ‘scarificazione’ creata dalle acque libere, ed anche al ‘pantano’ invernale creato da queste acque, che non solo scendevano dal cielo ma scaturivano dalle sorgenti rinvigorite. Dorgáli, come tantissimi altri paesi, nacque accanto all’acqua, dipendeva dalle risorgive presenti alla base delle alture carsiche. In origine, accadeva a molti paesi di avere a che fare con pantani ed allagamenti, male necessario per stare vicino ad un bene prezioso. Il fenomeno degli incomodi dell’acqua è storia di tanti paesi, che non per questo rinunciavano a stare accanto al divino liquido. S.Nicolò Gerrei era chiamato Paùli; Villacidro d’inverno era spesso messo in ginocchio dalla grossa scarificazione che lo divideva in due prevalendo nella sua funzione millenaria di allagare ed inondare, espandendo le sue acque sopra l’immenso ventaglio alluvionale dove giace l’abitato. Eppure qualcosa non quadrerebbe se concludessimo in tal modo quest’indagine etimologica su Dorgáli, che sarebbe in tal guisa l’unico toponimo sardo ad essere riferito, per antonomasia, alla ‘scarificazione’, al dhurgálu.

Un raffronto coi termini accadici dà il seguente apparato: neobab. durgallu che significa ‘corda di canne’ (evidente intreccio d’un tipo di cannuccia che in Sardegna manca, a meno che non s’intrecciassero le sue listarelle, come attualmente avviene per le stuoie); oppure neobab. durgarû ‘sgabello per poltrona o sedia o trono’; oppure ancora durgu ‘parte centrale, la più profonda, di terreno montano, o di fondazione d’un paese, o di origini reali…’. Ultima è la forma akk. urḫu che significa ‘via, strada’. Sembrerebbe più congrua quest’ultima occorrenza, perché Dorgáli stava sulla strada maestra, che un tempo fu romana ma ancora prima fu dei Šardana, onde il termine antonomastico urḫu cui, come succede per i toponimi o per i nomi di paese, fu aggiunto il suffisso territoriale sardiano -li con agglutinazione eufonica di D-.

Fatte tutte le precedenti considerazioni, penso tuttavia che Dorgáli abbia la base sumerica dur ‘insediamento’ + gal ‘big’, col significato di ‘grande insediamento’ (evidentemente relazionato ad altri piccoli o minimi insediamenti un tempo esistenti nel territorio).
NORA

Gr. Nῶρα, lat. Nōra. Esistette pure un castello della Cappadocia, chiamato Nῶρα da Plutarco, Strabone, Diodoro. Vedi anche i toponimi sardi Nurae, Nurri, ed il coronimo Nurra. Sono numerosi i toponimi sardi con questa forma, ed altrettanto numerose le volte che essa entra in composizione (Narbolìa, Norbello, Noragugúme, Nuráminis, Nurallao, ecc.).

Secondo Semerano, Nora richiama la base corrispondente ad accad. narûm, ant.assiro naruā’um ‘stele, segno di limite’, con evidentemente riferimento alla celeberrima stele di Nora, scolpita circa 1000 anni a.e.v. Ma Semerano fantastica. Un toponimo non può prendere nome da una stele, a meno che non vi sia astretto da fattori coagenti.

Nell’avviare la discussione, affermo intanto che Nora ha base simile a quella di nurághe. I loro destini semantici si sono uniti presto. Non così la semantica di Nurra, che s’adattò solo in seguito. Ed è proprio dalla sub-regione della Nurra che comincio il tentativo di capire la questione.

Si dice che il coronimo Nurra derivi da Nurae, antica città romana situata quasi sul mare della Nurra, tra Porto Ferro e il lago di Bárazza. La filiazione mi sembra persino ovvia. Ma chiediamoci intanto perché Nurae, con quel nome, sorse lì e non altrove. Rispondo: perché si trovava beneficiata dalla fortuna di avere a disposizione l’unico lago dolce (e potabile) della Sardegna, originato da risorgive sommerse che emettono dalle falde del sovrastante Monte Timidone e dalle colline viciniori. Non solo, ma la contigua spiaggia di Porto Ferro costituiva un porto naturale che in più era dotato a sua volta di ottime risorgive secondarie scaturenti dalle falde emittenti dello stesso lago Bárazza. (Per Nora invece, ahimè, l’acqua non era così prossima ed abbondante, e fu necessario portarla dalle montagne con un acquedotto, croce-e-delizia dei residenti perché fu proprio tagliando l’acquedotto che i Vandali piegarono la città nel 455-456).

Ma torniamo al Monte Timidone, favoloso tributario d’acque, il quale c’interessa in quanto Nurae gli stava proprio ai piedi. Questo fatto paesaggistico accomuna Nurae a tutti gli altri villaggi che riportano la stessa forma verbale (vedi per tutte la discussione sul lemma Narbolia). Non solo, ma il Monte Timidone è veramente paradigmatico, com’è paradigmatico il Monte Zirra. Sono i prototipi di numerose alture della Nurra che esibiscono con rude evidenza i durissimi strati calcarei. A vederle, quelle colline hanno forma di giganteschi ziqqurath, coi loro spessi lastroni di pietra sovrapposti l’uno all’altro a guisa di “torta nuziale”. In questo territorio è facile capire il processo formativo del toponimo. Da Nurae esso s’allarga per definire il territorio soggetto alla propria autorità, che per sineddoche prende il nome “filiale” di Nurra, la cui concettualizzazione però fu abbinata non solo alla città ma pure a questi enormi “ziqqurath”. Ancora oggi si dice nurra a indicare un ‘mucchio di pietre’.

Ma occorre procedere con ordine. Se Nurae, Nurra, Nur-ake, Nur-ka hanno la stessa base, qual è l’origo prima? Non possiamo più affermare, pilatescamente, che la radice è protosarda e come tale seppellirla per l’ennesima volta, dichiarando non tanto la nostra sconfitta intellettuale quanto una crudele apartheid della Sardegna. Se con i Fenici, se con gli Shardana, se con i Micenei, se con gli Egizi, se con gli Assiri, se con i Ciprioti noi Sardi abbiamo vissuto una civiltà pan-mediterranea antichissima e comune, perché rifiutare la base NUR già proposta dal Sardella e da altri linguisti? NUR attiene al termine accadico nūru(m) ‘luce (del sole)’, numru ‘splendore (del sole, di dio)’ riferito al più alto concetto del sacro, alla ‘luce’, allo ‘splendore’, e quindi al fuoco perenne che risplendeva nelle notti sullo spalto terminale di tutti gli ziqqurat, sullo ziqqurath di Monte d’Accoddi, sulla vetta delle alture a forma di ziqqurath, sulla vetta del Monte Timidone che s’erge alto e venerando sulle spume della costa algherese. In aramaico e ugaritico Nur è la ‘dea della Luce’, ‘quella che illumina’. In fenicio manca il termine ma la Fuentes-Estanol crede possibile che Nora sia espressa in fenicio nel toponimo Ngr. È possibile. Ma forse è più facile rintracciarla nella forma fenicia Nr che indica l’atto di offerta al Dio.

Una volta acquisita la base accadico-aramaica (e fenicia), mi chiedo che c’entri tutto questo con Nora, che sedeva in piano, lontana dai monti, sia pure su un tabulare chersoneso roccioso. C’entra, eccome. Il fuoco sacro splendeva non solo sulle alture più tipiche (di per sé dotate di richiamo magico-religioso), ma anche al centro delle città, le quali di per sé, quando nacquero come segno primario d’uno Stato organizzato, erano considerate sacre per eccellenza. Così fu per Gerusalemme, città sacra agli Ebrei, e lo fu a maggior forza per le prime città della storia universale, ossia quelle della Mesopotamia, che avevano il tempio del Fuoco, il tempio della Luce. La Mesopotamia, regione orba di alberi (la cui privazione fu la molla intima dell’epopea di Gilgameš) ma dotata di prodigiose quantità di nafta, ebbe la materia prima per tenere il Fuoco Perenne sugli ziqqurath, che erano dei tell elevati al cielo dalla mano dell’uomo per congiungere anche visualmente la città alla sede eterea del Dio della Luce. A Roma c’era il tempio di Vesta, e c’era la casta sacerdotale delle Vestali, monache allo stato verginale, deputate a conservare imperituro il fuoco sacro dell’Urbe. L’Urbe, appunto. Fu chiamata così (Urbs) la città per antonomasia, e poco importa se la radice Ur- derivi dall’accadico ‘città’ o dall’accadico ‘aratro’ (quello che servì a delimitare Roma). L’Urbe era la capitale dell’Impero più grande della storia dell’uomo. Era una città, non un pagus. Città fu anche Nora, la prima edificata in una Sardegna totalmente popolata da una miriade di tribù agglomerate in pagi minuscoli e senza ordine costruttivo, le cui capanne però facevano ressa attorno al sacro Nura-ke, la costruzione divina sul cui spalto terminale splendeva un fuoco imperituro. I Fenici (anzi i Sardiani che noi ci intestardiamo a chiamare Fenici) non ebbero altra idea felice, se non di chiamare Luce la loro città, la prima città dell’Occidente, nata prima di Roma e prima di Cartagine. Nora ‘la Luce’, col suo simbolismo ineffabile, aveva un nome derivato, “contagiato”, poiché esso era la forma semplice del composto babilonese nur-aḫ ‘edificio del Fuoco’, relativo ai Nuraghi.

Non capiremo mai abbastanza quanto fosse importante il culto uranico per i popoli fenici e per il popolo sardiano. Il fuoco veniva acceso in onore di Ba‛al non solo sulle terrazze dei templi, non solo sulle alture (dove s’erigevano le bāmōth), ma persino sulle terrazze domestiche. I culti sui tetti nel X secolo a.e.v. erano praticati in onore di Ba‛al e di altre divinità astrali in tutto il Vicino Oriente, compresa la Terra di Canaan, per la quale troviamo documentazione a Megiddò, Ekron, Gerusalemme.

Ma che c’entra questo discorso con la nurra intesa come ‘voragine, spaccatura profonda, cavità tenebrosa’? Altro che se c’entra! Questo concetto deriva sicuramente dal tabernacolo del Nurake, cioè la tholos, la camera sacerdotale, il sancta sanctorum impenetrabile e buio, la parte vuota del nuraghe, evidentemente chiamata al femminile Nurra per distinguerla dall’essenza maschile e fallica del Nurake vista dall’esterno come un pieno. Traslare il concetto del vuoto vaginale della tholos (fuso carnalmente con la soda virga del nurake, vuoto-per-pieno, entrambi simbolo dell’unità col Dio della Luce) fu compito dei preti cristiani dell’alto medioevo, che demonizzarono tutto quanto atteneva agli aspetti pagani della santità. E così alle voragini terribili ed imperscrutabili del Supramonte e delle montagne carsiche, simbolo dell’ingresso all’Inferno, fu concettualmente paragonato, traslato ed indirizzato il nome delle thòloi (delle nurre) che divennero i contenitori delle tenebre sataniche ed esecrande dove il Diavolo celebrava i propri riti per propiziarsi il furto delle anime.

Tutto quanto sinora affermato non contrasta affatto con la forma fenicia di Nora, che è Ngr, la quale sembra essere alla base del toponimo Nùgoro/Nugòro. Sembra proprio che tra Nora/Nugòra e Nugòro ci sia una vicinanza morfemica e semantica. Mentre Nora ha per base il fenicio Nr (o Ngr), Nùoro ha certamente per base il fenicio Ngr. Quest’ultima forma sembrerebbe avere a sua volta origine dal babilonese nuḫar ‘tempio elevato, ziqqurat’. Quindi possiamo vedere in Nùoro un ‘sito di celebrazioni solenni’, un’altura dove parecchi cantoni e tribù convergevano periodicamente per delle grandi feste. Non dimentichiamo che presso la fonte d’Istiritta c’era un tempio di prostituzione sacra, e probabilmente era proprio lì che si svolgevano le grandi celebrazioni per la dea Ištar.

Ma va precisato che nuḫar è un riferimento secondario di Nùgoro (Ngr). Nùgoro ha la base diretta da accad. nuwwurum 'intensità (di luce)', con successiva consonantizzazione delle due velari -ww- > -g-. Va precisato, a scanso d'equivoci, che nuwwurum è un epiteto riferito direttamente al nuraghe quale sede luminosa del Dio del fuoco, e che dunque i toponimi Nùgoro (e sass. Nùaru), sorti in virtù di tale epiteto sono sempre riferiti in prima persona al nuraghe, che era il tempio del Sole. Per Nùaru leggi più compiutamente al lemma Nùoro.

Nella persistenza millenaria delle due pronunce Nùgoro e Nùaru rientra a pieno titolo anche la parentela semantica esistente tra 'intensità di luce' (nuwwurum riferito alla sacralità del nuraghe quale altare del fuoco)' e 'nuraghe' (nuḫar), che portò all'immedesimazione della "torre" col suo epiteto e persino alla fusione dei due termini. Nel Nuorese prevalse la lettura toponomastica riferita alla brillantezza del nuraghe quale altare del fuoco, che è nuwwurum.
NORÁCE

Secondo Sallustio (II, 6-7) è figlio di Hermes e di Eritìa figlia a sua volta di Geriòne. Sappiamo che Geriòne stava in agguato sull'isola di Eritìa (sull'Atlantico, forse alle foci del Guadalquivir), pronto all'eterna lotta serale contro il Sole soccombente.

Secondo Pausania X 17,5, gli Ìberi, dopo Aristéo, si trasferirono in Sardegna sotto la guida di Norace/Norake (Νῶραξ, Νώρακος) e da essi fu fondata la città di Nora. Solino 4,1 ricorda: «Non importa dunque narrare come Sardo, nato da Ercole, Norace da Mercurio, l’uno dall’Africa e l’altro da Tartesso della Spagna, arrivassero sino a quest’isola, e da Sardo abbia preso il nome la regione, e da Norace la città di Nora…».

Giovanni Ugas 24-28 porta una serie di argomenti a favore della parentela succennata, ma poi non riesce a convincere, non fosse altro perchè Nora risale al 1000 a.e.v. (750 a.e.v. secondo Ugas), mentre Noráce risale (secondo Ugas) all'Età del Vaso Campaniforme ossia al 2100 a.e.v. Allora dobbiamo affermare che questo mito sulla fondazione di Nora, sortito dalla febbrile immaginazione greca, pare nato per la casuale parentela fonetico-semantica tra Nor-ace e Nora.

Noráce (o Nòrace) è in realtà un classico stato-costrutto accadico, formulato a prescindere dall'esistenza di Nora. Ha un etimo accadico, risalente proprio al III millennio a.e.v.: da nūru 'luce' + aḫu 'strumento': nūr-aḫu. Come dire, 'strumento della luce', classico appellativo rivolto a un eroe che si suppone provenisse dalle ombre del Tramonto verso la luce d'Oriente. Anche nuraghe/nurake sembra avere la stessa etimologia, avendo esattamente la stessa forma di Norace (Nurace = nurake). Infatti il monumento è stato così denominato proprio per essere l'altare del dio Sole (‘strumento della luce’). Per quanto, a mio avviso, la base etimologica di nuraghe sia ancora più arcaica, avente le basi nel sum. nu-ra-gu: nu ‘creatore’, ‘sperma (divino)’ + ra ‘puro’, ‘ fulgido’, ‘splendente’ (vedi egizio Ra ‘Sole che splende’) + gu ‘forza’, ‘complesso’, ‘interezza (di edificio)’. Il composto nu-ra-gu significò quindi ‘complesso edilizio di Dio Fulgido Creatore’, ‘Chiesa del Fulgido Creatore’. Era, insomma, l’edificio sacro eretto a magnificare il Sommo Dio dell’Universo, raffigurato anche come Dio-Sole.

Appalesata l'identità Norace = nurake mediante la lingua accadica, non resta che ringraziare i Greci (Pausania) ed i Romani (Sallustio) per aver tramandato il nome Norace ed averlo legato (nel giusto o nell’incerto) a Nora. La cupidigia dei Greci nei confronti di una Sardegna (e di un Occidente) da cui erano tagliati fuori in virtù della talassocrazia sardiano-fenicia, li fece fantasticare assai sulla questione. Ma c’è un fatto singolare, sul quale mai nessun linguista ha riflettuto, ed è che i Greci sono stati i primi nella storia ad aver prodotto il nome del nuraghe (sia pure attraverso il mito di Norace: infatti dal sumerico il nome è soltanto dedotto (da me), mentre in babilonese, come sappiamo, l’altare-torre sopra lo ziqqurath era detto nuḫar). In tutto ciò i Greci ebbero la veste di mediatori – pratica nella quale erano maestri – tra la civiltà accadico-babilonese e quella mediterranea.

Tutta l’etimologia che precede su Norace lascia la questione a “bocce ferme”, nel senso che appare opportuno attenersi alla tradizione greco-romana ed accettare che Norace provenisse dall’Iberia, forse nell’epoca del vaso campaniforme.
NÙORO

Attestato dal 1341 come de Nuor othonensis diocesis (era un vicus dipendente dalla cittadina di Otthana), il toponimo lascia aperta inizialmente più d’una ipotesi. Il Pittau fa una proposta semplicistica nell’avvicinare il toponimo ad altri simili della penisola italiana evocanti la noce, come Nogara, Nogaredo, Nogarole, dal lat. *nucaria ‘(il luogo) dei noci’ (da nux ‘noce’). Cfr. il veneto nogàra, noghèra ‘noce (albero)’. E nel proporre ciò, da buon nuorese non dimentica l’accento alquanto ondivago di Nùoro, dagli indigeni chiamata talora Nùgoro ed altra Nugòro (a parte gli esiti nella rima poetica). E questo, se vogliamo, è il destino di altri toponimi quali Ussassài/Ussàssai e Ulassài/Ulàssai, i cui esiti lasciano indifferenti gl’indigeni. Se la radice provenisse dal lat. nux, ci renderemmo pure conto della pronuncia non più piana ma sdrucciola dei nuoresi, essendo tipico degli indigeni del Nuorese e della Barbagia di Ollollai pronunciare molti nomi sul tipo càmpana anzichè campàna, etc.

Ma per non titubare e indugiare più del dovuto su nux, ricorderei, solo en passant, che i nomi locali sardi in -or, -ir richiamano spesso l’accadico ūru ‘città’, ugaritico ‘r, ebr. ‘ir. Però questo aspetto sarebbe del tutto trascurabile, se non ce lo avesse ricordato il Semerano, che vede in Nùoro una commistione (o confusione) tra la base Nu- di nu-rake + l’accad. uru, come dire ‘la città dei nuraghi’. Certo l’antica Nùoro nacque imbozzolandosi attorno ad alcuni nuraghi e infine smantellandoli (oggidì se ne trova qualcuno soltanto in periferia). Ma questo processo riguarda la maggior parte dei paesi della Sardegna, e non può servire come suggerimento di un appellativo, essendo una illazione azzardata e pure banale.

Senza andare per funambolismi, e ritornando all’analisi del Pittau, tenendo ferma la radice nux e giustapponendo ad essa la voce italiana (ma pure europea e persino accadica) goro ‘altura’ (vedi lo slavo Gori-zia), potremmo tradurre Nùoro (Nù-goro) come ‘l’altura delle noci’, mettendola alla pari di altri paesi sardi dal nome italianizzato per influsso pisano (?), come Nughédu S.Vittoria e Nughédu S.Nicolò.

Eppure qualcosa non torna nella questione, anche perchè i due paesi chiamati Nughédu non hanno attinenza con le noci (vedi lemmi); e qui spiace mettere in mora il Pittau, che senza indugi traduce Nùoro come ‘noceto’. La radice Ngr è già presente nella lingua fenicia (c’è persino nella Stele di Nora!, anzi è il nome della stessa Nora), ed essa può essere vocalizzata benissimo anche come Nùgoro o Nugòro. L’ambivalenza può essere spiegata.

Ma nel contempo è tutta la questione a complicarsi, poichè a questo punto occorre evidenziare che in Logudoro Nùoro (Nùgoro) è chiamata Nùaru. Quest'ultimo termine a prima vista sembra ripetere proprio il nome antico del 'nuraghe' (nuḫar, con affievolimento e successiva caduta del -ḫ-). Ma a ben vedere, il log. Nùaru ha la base nell'ant.accad. nawāru(m) 'essere brillante, splendere' > agg. nawru(m), nauru(m) 'brillante, scintillante' (di corpi celesti, come epiteto divino), incrociato con nuwwurum 'intensità (di luce)'.

Nùgoro pertanto ha la base diretta da nuwwurum, con successiva consonantizzazione delle due velari -ww- > -g-. Ma va precisato, a scanso d'equivoci, che nuwwurum è un epiteto riferito direttamente al nuraghe quale sede luminosa del Dio del fuoco, e che dunque i toponimi Nùgoro e Nùaru sorti in virtù di tale epiteto sono sempre riferiti in prima persona al nuraghe, che era il tempio del Sole.

Nella persistenza millenaria delle due pronunce Nùgoro e Nùaru rientra a pieno titolo anche la parentela semantica esistente tra 'intensità di luce' (nuwwurum riferito alla sacralità del nuraghe quale altare del fuoco)' e 'nuraghe' (nuḫar), che portò all'immedesimazione della "torre sacra" col suo epiteto e persino alla fusione dei due termini. Nel Nuorese prevalse la lettura toponomastica riferita alla brillantezza del nuraghe quale altare del fuoco, che è nuwwurum > *Nuggurum > Nùgoro.

Quanto a Nora, presso i fenicio-parlanti prevalse la consonantizzazione dell'accadico -ww- di nuwwurum, ed ecco perché il suo nome viene scritto come Ngr nella celebre stele, giusta l'intuizione della Fuentes Estanol; tra i Sardo-parlanti invece prevalse, col passare dei secoli, l'affievolimento e la successiva caduta di -ww-, onde nuwwurum >Nu(wwu)ra > Nora.

Per tornare a Nùoro e capire il processo fonetico che portò a Nùgoro, possiamo partire, alternativamente, anche dall'agg. nawru(m), nauru(m) 'brillante, scintillante' (di corpi celesti, come epiteto divino). A questo riguardo entra in gioco la legge della semplificazione del dittonghi protosemitici (riguardante l'antico accadico), che dalla base naurum produsse nū(w)rum; l'antica semiconsonante debole (w) fu assimilata poi alla /g/ che è la velare sonora più vicina alla /w/. Quest'ultima, sparita nel toponimo Nora [< Nū(wwu)rum], è rimasta nel toponimo Nùgoro [Nū(wwu)rum].
NURDÒLE

Nuraghe in agro di Oráni. Dolores Turchi (GESMFRP 66) informa che al suo interno c’è una grande vasca, secondo lei con funzioni lustrali. Collegandosi al fatto che in agro di Dorgáli esiste un nuraghe detto Prugatóriu ‘Purgatorio’, e legando questo toponimo a tanti altri esistenti in Sardegna con pari nome, ipotizza logicamente che in Sardegna in età pre-cristiana ci fossero parecchi siti destinati alla purificazione, più che altro legata, secondo lei, al culto di Dioniso ed ai Misteri Eleusini.

Elemento centrale di tale intuizione è il toponimo-idronimo Masilòghi (GESMFRP 60 sgg), alla cui voce rimando per l’analisi linguistica.

La Turchi (p. 66-67) suppone che Masilòghi, situato all’ingresso del paese di Olièna, fosse anticamente una fonte sacra. La sua certezza, che condivido, è dovuta al fatto che nel passato attorno ed in funzione di tale fonte si svolgevano delle feste notturne la cui azione centrale era la costruzione, l’annegamento e la successiva arsione di un mamuthòne (fantoccio). Tali feste costituivano la parte finale ed eclatante di una “novena” attuata presso le fonti di Su Gologòne da parte dei reduci di azioni guerresche contro i Musulmani. Erano delle tipiche “feste di rientro”, tipiche di tante novene campestri celebrate un po’ in tutta la Sardegna.

A parte il suo riferirsi ai Misteri Eleusini anzichè a quelli siro-fenici di Adone, l’interpretazione della Turchi è giusta. Masilòghi è un composto sardiano con base nell’akk. masûm ‘detergersi, ripulirsi, purificarsi’ + lugû ‘porta, ingresso’ (stato costrutto masi-lugû), col significato sintetico di ‘Porta della Purificazione’.

Quanto a Nurdòle, per esso è da supporre un composto sardiano con base nell’accad. nūru ‘luce, splendore (del Sole, ossia di Dio)’ + dulû ‘secchiello’ (nel senso di contenitore d’acqua). Il composto (stato costrutto nūr-dulû) indicò in origine il ‘nuraghe della purificazione’.
QUARTU, QUARTUCCIU, SELARGIUS

Quartùcciu, comune della provincia di Cagliari, è contiguo a Quartu sant’Elena ed è alquanto più piccolo. Ma la diversa dimensione è un fatto recente e non è la ragione del toponimo, inteso impropriamente come ‘Quartu piccolo’. Nel medioevo Quartùcciu era grande come Quartu, aveva lo stesso nome di oggi, ed era chiamato, alla spagnola, Quartocho, Quarto tocho, inteso dagli occupanti come ‘Quarto grossolano, villano, zotico’.

In ogni periodo i toponimi esistenti vengono adattati ad orecchio, per paronomasia, e gli Spagnoli li adattarono senza peraltro voler dare connotati spregiativi. Non sapevano intendere in altro modo uno strano Quartucciu per un borgo già da allora nientaffatto minore di Quartu, consci che i campidanesi, se avessero voluto sottolinearne la piccolezza, avrebbero preferito un Piccìu (del tipo Sia-Piccìa).

La storia ha sempre unito Quartu e Quartucciu. Nel passato costituivano assieme a Selárgius una triade di villaggi paritetici e contigui, per quanto distinti. Secoli addietro Quártu e Quartùcciu erano chiamati, in modo più congruo, Quartu josso e Quartu susu. Ma entrambi, ahimè, con dei nomi ignoti e obnubilati dalla caligine dell’indifferenza, al pari del nome Selargius.

Per rendere finalmente chiara la questione, parto da Quartu josso, oggi chiamato Quartu sant’Elena. Il nome Quartu viene riferito al quarto miglio della strada romana diretta da Cagliari ad Olbia, ma questo riferimento è una elucubrazione dotta fatta a freddo, poi divenuta patrimonio del popolo. Di etimologie popolari sono lastricate le vie dell’Inferno.

Ma ci sono anche uomini di buona volontà. C’è chi pone il discorso su buona carreggiata, supponendo che Quartu non derivi dal romano quartus o quartum ma dal punico qart ‘città’. Ad altri invece sembra difficile accedere a tale ipotesi, per una serie di considerazioni negative. Primamente ricordano che Quartu si trova in felice compagnia, non solo in Sardegna, in qualità di villaggio sorto accanto al miliario d’una strada romana. La felice compagnia sarda sarebbe costituita da Sestu, Settimo, Ottava (tra Portotorres e Sassari), Decimo. Ma tutti questi toponimi sono paronomasie che sottendono toponimi un tempo significanti qualcos’altro.

Quartu ha la base nel semitico qart, termine usato dai Fenici (qrt ‘città’), dagli Ugaritici (qrt ‘città’) e dagli Aramei (qiryā ‘città’, קִרְיָה), ed in pari tempo dagli Assiri (qrītā ‘città). A Babilonia s’usava lo stesso radicale (qarītu) per ‘granaio’: la qual cosa non è di poco conto, perché nell’epoca dei Grandi Imperi i granai erano di rigorosa proprietà statale e – per ragioni strategiche – non potevano stare in aperta campagna o in un luogo qualsiasi, ma dentro una città presidiata dalla truppa. Quindi se supponiamo Quartu < qart dobbiamo ammettere ch’essa, già in epoca šardana, ebbe la sua rilevante importanza, considerato che un radicale tipo qart non arrivò in Sardegna coi Fenici ma preesistette già con gli Šardana medesimi, poiché questi parlavano una lingua che aveva la base entro il vasto paniere della parlata accadica, imperante nel Mediterraneo dal 2000 a.C.

Ma – ed ora spaziamo nella geografia ambientale – perché mai i Fenici (o i precursori Šardana) avrebbero avuto l’idea di costruire una città in un sito discosto dalle spiagge e dai porti, precluso dalla grande laguna oggi chiamata Saline di Quartu? È debole l’argomento che la laguna era facilmente aggirabile approdando alla spiaggia dell’attuale Margine Rosso (presso la quale sta infatti una lunga sopraelevata d’epoca romana). Seconda obiezione: quali ragioni postulavano la nascita di due città, Cagliari e Quartu-Quartucciu, vicine l’un l’altra quattro-cinque miglia? Circa la vocazione al grano suggerita dal citato lemma babilonese, è senz’altro possibile pensare che in queste vaste campagne si coltivasse (in epoca punica lo si coltivava certamente) il grano. Ma intanto va detto che la vocazione riguardò principalmente Quartucciu (= Quarto Tocho che nel suo aggettivo ‘rozzo, zotico, agreste’, così voluto dal senso pratico degli Spagnoli, tradisce il concetto di ‘vocato all’agricoltura’). Ma nella vocazione al grano era implicata anche Selárgius, come vedremo. Eppoi quello del grano era fenomeno piuttosto comune, essendo tipico, ad esempio, della Trexenta e della Marmilla, che però, notoriamente, non conservavano il grano in loco ma lo trasferivano rapidamente ai granai custoditi dentro le robuste mura della città di Cagliari. Per Quartu occorre pure riflettere sul fatto che i vari pagi, in cui si suddividevano i fruitori del territorio, non avevano da pensare al solo grano ma anche alle saline, da cui traevano un valore aggiunto maggiore. Non si può fare a meno d’immaginare che gli indigeni di Quarto Josso da tempo immemorabile, magari aiutati da quelli di Quarto Tocho e di Selargius, abbiano trasportato su chiatte il sale sino a Su Siccu per l’imbarco, navigando nella grande laguna. Non a caso Mammarranca indica quel lunghissimo canale navigabile collegante le Saline a Su Siccu (Cagliari), che in termini semitici significa ‘lunga via d’acqua’.

In questa faccenda c’è da dare, francamente, un colpo all’incudine ed uno al martello. E qui torno a difendere l’interpretazione di Quartu = Qart ‘città’. Difendo con più vigore la definizione di ‘città’ per tre motivi. Primo: si deve immaginare che la dunosa spiaggia del Poetto fosse stata tagliata all’altezza dell’Ospedale marino o della “Bussola”, e che dunque le navi onerarie passassero tranquillamente collegandosi dritto a Quartu josso (esattamente come fecero i Fenici a Giorgino per raggiungere il loro porto di S.Igia). Secondo: il fatto che tre popolose borgate fin dall’estrema antichità si siano trovate sempre unite, è la dimostrazione provata che tale conurbazione fosse chiamata veramente Qart ‘città’, in quanto nell’estrema antichità le città nascevano quasi sempre dall’incontro e dalla fusione di vari pagi contigui, costituiti ognuno da un singolo gruppo patriarcale avente dei connotati che si preferiva tenere distinti. Il terzo motivo si nutre d’aritmetica: va ricordato che il miglio romano (m 1478) moltiplicato per quattro (quartu) fa m 5912, che non sono proprio i 7400 m che dividono i due capisaldi attuali (piazza Jenne e piazza S.Elena di Quartu). La differenza di 1,5 chilometri non si colma affatto supponendo una più corta direttrice impressa all’itinerario diretto ad Olbia. La direttrice era già cortissima: partiva dal foro romano (piazza Carmine) e transitava a un dipresso sotto l’attuale via San Giovanni (verosimilmente per gran parte della via Garibaldi), tirando poi diritta lungo il bordo settentrionale della laguna di Molentargius per segnare il quarto miglio molto prima di Quartu Josso. I conti sono chiari.

Ma torniamo all’agglomerato dei tre villaggi uniti e distinti. Se di porto e di città dobbiamo parlare, dobbiamo capire che l’economia cittadina, oltrechè salaria e porporaria (poi parleremo di ciò), era principalmente agraria, e dunque Qart era necessitata a smerciare le proprie derrate. I tre villaggi hanno un retroterra territoriale immenso. Quartu spazia ad est in una ampia fascia pedemontana e marina, Quartucciu e Selargius spaziano a nord per campagne prima piatte poi ondulate, adatte (allora ed oggi) alla migliore agricoltura. Certo, Quartu josso nel medioevo subì l’onta della corvée per la raccolta del sale. Ma aveva enormi estensioni anche per le coltivazioni, e viene dalle sue campagne la prova delle prime vigne della storia sarda. Ma andiamo con ordine.

Se accettiamo per la conurbazione di Quartu-Quartucciu-Selargius il nome di ‘città’, dobbiamo pure chiarire l’origine di Qart-Ucciu. Né il latino né il greco hanno referenti di tale forma. Ed è chiaro il perché: se qart è semitico, anche il secondo membro -ùču deve esserlo. Infatti in accadico troviamo ugû, col significato di ‘madre’. Eccoci dunque a Quartùcciu ‘Città Madre’, termine completo e bello.
SASSARI preromana. Colonizzazione della Nurra e della Romangia

Per carenza d’interpretazione e di momenti intuitivi, gli studiosi che hanno tentato di evidenziare l’origine di Sassari e del suo nome non sono arrivati neppure allo strato bizantino, si sono fermati ai primi anni bui del Giudicato di Torres. Tale iniziativa è rimasta in mano agli storici del Medioevo, la cui competenza è notoriamente ferma a certe date, oltre le quali non si sentono d’andare. Ma anche il Meloni, che pure conosceva la storia romana, non andò lontano nella protostoria sarda, fermandosi al 238 a.C. e sbagliando persino l’inquadramento del primo arrivo dei Punici. Più in là nessuno si è mai spinto, neppure Barreca, il quale era l’esperto dei Fenici.

In Sardegna gli specialisti delle antichità, ossia storici, archeologi, linguisti, si sono scaricati a vicenda l’onere della ricerca delle origini; di ciò ha sofferto anzitutto la toponomastica. Illuminare le vere origini non interessa a nessuno, e se qualcuno ci tenta, gli strumenti esclusivi a sua disposizione sono grecismi e latinismi, con i quali si percorre poca strada.

Pittau (OPSE 236) non affronta la complessa questione dell’etimologia di Sàssari, limitandosi a ricordare un parallelo tra Sàssari, Sàssara (Tonara) e l’etrusco Sàssera (isola d’Elba).

In verità, il lemma Ṣàṣṣari contiene la base sumerica sar ‘giardino, orto; rete di orti’, reduplicata (e semplificata) per legge fonetica, a indicare la totalità: sa-sar- (+ lat. -is > Sà-sar-is); in origine significò ‘immensa rete di orti’. Stando alle teorie sulla lingua sumera, che era lingua pan-mediterranea, il termine dovrebbe risalire almeno a 11.000 anni fa.

Sàssari è chiamata pure Thàthari: la città quindi ha due nomi, caso unico in Sardegna. Thàthari è anch’essa reduplicata secondo la legge sumerica e accadica: Tha-thar- (+ -is).

Ha dunque radice Thar- ed è affratellata al toponimo Tharr-os: entrambi con pronuncia dura: Ṭar- per Tharros, Ṭa-ṭarr- per Thàthari. Sono due termini relativi a città poste su tavolati calcarei miocenici, i quali producono terre molto feraci, come appunto quello di Sassari e quello del Sinis.

Per capire il legame di Tharr-os con Tha-thar-i, preciso che ambo i toponimi sono fenicio-cananei ed hanno origine da Tyros, la principale città fenicia, detta in fenicio Ṣor, ebraico Ṣôr (cfr. sardo Villa-Ṣor), accadico Ṣurrum (vedi cognome sardo Zurru). Ṣûr, Ṣôr significa ‘roccia’, perché Tyros stava su un grande scoglio calcareo, e il termine è affine all’akk. ṣeru ‘dorsale, territorio elevato’, ṣūrrum ‘esaltare’, aram. tur ‘monte’ (vedi il monte Tur-usèle nel Supramonte), da collegare al babilonese ṣīru ‘augusto, eccellente, di rango primario’ (v. ingl. sir, it. sire).

Sgombriamo il campo dall’ipotesi che Sassari sia antica quanto Tharros o pressapoco. Il punto non è questo, anzi dai dati storici e archeologici disponibili viene fatto di pensare che la piazzetta medievale di Pozzu di Biḍḍa (il nucleo originario della città di Thàthari) sia nata inizialmente come modestissimo agglomerato di laure bizantine, quanto bastava ai monaci per il ricovero personale (una capanna a testa), mentre poco più in alto fu eretta un’umile chiesetta dedicata a san Nicola di Bari (anzi a Nicola di Mira, città che stava in territorio bizantino classico, poi occupato dai musulmani). Ma intanto sappiamo bene che a un chilometro dal Pozzu di Bìḍḍa stava il celebre villaggio chiamato Silki (col suo bravo nome sumerico: sil ‘’remoto’ + ki ‘luogo, sito, terreno’, col significato di ‘terra lontana, ossia ‘terra distaccata’: da Thàthari), e che a metà strada tra Silki e questa fonte stava la nota dragunàja delle Conce ed in più la fontana di Santa Maria. Era ricchissima d’acque, questa conca dove vivevano masse di agricoltori che da millenni parlavano il sumero-fenicio-accadico. Tragunàja, 'corrente d'acqua sotterranea', 'grossa vena d'acqua nascosta', ha la base nell'akk. turku-nāru: turku 'tenebroso' + nāru 'fiume'. Significava e significa 'fiume sotterraneo, fiume delle tenebre'.

Cominciamo a capire che la Sardegna è letteralmente zeppa di toponimi sumeri, fenici, accadici, e che tale pletora collide con le “certezze” degli archeologi, i quali restringono la presenza dei navigatori fenici nell’isola, relegandoli quasi sempre lungo le coste. In mano loro la “questione fenicia” è diventata uno dei più grossi imbrogli della storia sarda. Conosciamo l’approssimazione degli archeologi nel riconoscere come fenici certi manufatti, e non altri. In quest’ottica, non hanno pudore a sostenere che l’enorme quantità di scarabei e altro materiale “egittizzante” trovato a Tharros sia tutto d’importazione, anziché nostro, ossia di creazione sardiana.

Viene posta una barriera invalicabile tra Sardi e Fenici, che li mostra come popoli antagonisti, mentre le ricerche biologiche sugli aplotipi e le ricerche linguistiche fanno riconoscere i due gruppi come un solo popolo. I Tyrr-eni erano gli abitanti di Tyrr-is (Libysonis), e dettero il nome al Mare Tyrr-enus. Guarda caso, erano gli stessi abitanti di Tyr-os. I quali, poi, non erano altri che gli Shardana (uno dei Popoli del Mare) i quali, avendo annientato la civiltà ugaritica ed avendo ricreato al suo posto quella tìria, ripartirono proprio da Tyros per ritornare nella propria patria di origine. Di qui il ricorrere della radice tyrr- in Sardegna.

Il toponimo Porto Torres ha la base in Tyrris Libysonis, come sappiamo. Fu da questa colonia romana che originò nell’alto medioevo la nascita della vicina città di Sássari (Tháthari). Ma non si trattò di fondazione. In un primo momento è da supporre lo spontaneo agglomerarsi di pellegrini, poi di commercianti, infine di artigiani ed agricoltori (provenienti dall’intero territorio della Románia o Romángia), che costruirono delle dimore presso l’insediamento di laure bizantine nate attorno a Pozzu di Biḍḍa. Al primo assembramento comunitario s’aggiunsero poi le ondate di fuggiaschi turresi sospinti dalle incursioni arabe. Thàthari era avviata a crescita lenta, perchè anch’essa era facile preda degli incursori, tanto che la capitale turrese era stata trasferita nella lontana Àrdara.

Tyrris Libysonis fu certamente fondata dai Romani, e gli scavi archeologici non dànno appigli sicuri a quanti, immaginando dietro l’aggettivo Liby- una prefondazione punica, pensano di tradurre il toponimo come ‘Torre libica, ossia cartaginese’ (i Cartaginesi erano spesso chiamati Libici). Ammesso che ci fosse stato un precedente sito punico, perché i subentranti romani avrebbero dovuto dare al porto-estuario sul rio Mannu il nome della peggiore nemica? Dobbiamo consentire che la volontà difettava, e tuttavia Turris Libysonis era stato proprio un fondaco punico. Se gli archeologi non hanno trovato prove materiali concrete, lo ammettiamo con la prova linguistica, poiché se allo storico per pronunciarsi serve una fonte storiografica del passato, se all’archeologo per pronunciarsi serve un manufatto del passato, a noi linguisti-etimologi per pronunciarci serve la parola del passato. Quando le pietre rimangono mute, le parole continuano a parlare.

La radice Tyr- non s’addice ad alcuna ‘torre’ ma alla città fenicia Tyr-os. E una volta ammesso Tyrr-is < Tyr-os, dobbiamo ridiscutere pure il nome Tyrrhēnói ‘Tirreni’. Essi non furono i ‘costruttori di torri (nuragiche)’ come sostiene Pittau, ma i Tyr-ii, la cui egemonia navale diede persino il nome al Mare Tirreno.

Libyson-is (suff. lat. -is) ha la base etimologica nell’egizio Rebu, Lebu (Libya ossia Africa del nord), cfr. ebr. לוּב sūnu(m) ‘seno, grembo’, ‘fianchi’ della donna in termini sessuali (anche come posto per ricevere, accogliere), cfr. lat. sīnŭs, oltrechè ug. sn che però è di etimo incerto; Turris Libysonis ebbe il significato di ‘grembo accogliente dei Libii di Tiro’, ossia dei Punici, originari di Tiro; il poetico ‘grembo’ è riferito alla foce del fiume dove stava il fondaco.

Le póleis senza territorio sono un’invenzione. Figuriamoci Turris, che non era pólis ma colonia. Non è facile, oggi, capire come si scompartiva minutamente la vocazione orticola di Turris e hinterland. La ricchezza del retroterra che chiamarono Romània era incredibile, capace di dare tanto grano, fatta salva la vocazione orticola di Sassari, della quale, sono certo, trasse vantaggio l’Urbe, visti i rapidi movimenti del naviglio per Ostia.

E laddove s’insediarono i Romani di Turris, lì si parlò latino. Ancora oggi le sacche fondative che delimitano l’antica Romània o Romàngia sono le stesse: Sassari, Sorso, Porto Torres, Stintino, La Nurra. Oltre questi confini, finiva il latino dei Turrenses, finisce il dialetto sassarese, e finiscono gli orti.

Gli abitanti di Sorso, da akk. šuršu ‘fondazione, insediamento’, sono detti Sorsinchi da sempre: -íncu sumerico inku ‘chi sta e vive in un preciso sito’, lat. incŏla. I Romani li chiamarono però Sossinates (Strabone V, 1-7), ma prima dei Romani, e poi dopo, fino ad oggi, essi si sono sempre detti Sussinchi: in ciò c’è l’indice di una resistenza culturale contro l’occupazione romana, e pur stando dirimpetto ai Sinnarési, che erano pastori, non credo che la boria degli occupanti romani avesse aizzato troppo i Sorsinchi contro i Sinnarési. “Do ut des”. Sènnori (accadico ṣen-urû ‘ovili di pecore’: ṣenu ‘greggi, pecore’ + urû ‘stalla, ovile’) dovette essere tributario di prodotti pastorali per Sorso e Thàthari. Comunque la separazione storica alla quale assistiamo oggi – Sorso sassarese, Sénnori logudorese – fa capire che i Sorsinchi, al pari dei Thatharesi, pur essendo abitatori da tempi immemorabili, subirono ad opera dei Romani un repentino e radicale soppianto.

La spocchia dei Sassarési verso li biḍḍìncuri risale a quando i Romani, colonizzando la Romània e spin¬gendo indietro i Còrsi e i Bàlares (relegati a un destino di pastori sulle alture), determinarono pure la diffe¬renza dialettale. Sassari, dopo il declino di Turris a causa degli Arabi, visse un destino di città-capitale, e governò la Romània imponendo la parlata latina (espansa appunto a Sorso, Turris, Stintino, la Nurra, S’Alighèra), e lasciando che le disprezzate (o temute?) popolazioni delle colline (li biḍḍíncuri, dal lat. villae + incŏlae ‘abitanti dei villaggi’) parlassero l’antico sumero-accadico-fenicio-ebraico e vivessero un destino di tributari dei prodotti che la Romània non aveva (legname, cera, maiali, prosciutti, salsicce, buoi da lavoro, cavalli, pecore, formaggi, latte, carne, lana, pelli, corna, vino, olio, cestini). Il destino di S’Alighèra in seguito deviò ad opera dei Catalani.

Ad ogni modo, la divisione dell’economia aveva fruttato ai Sassarési, da parte di li biḍḍíncuri di lingua semitica, il primo epiteto: Thatharésu magna cáura, sintagma integralmente semitico: Thatharésu, lo sappiamo; cáula è da akk. ka’’ulu(m); magnà da akk. mânu ‘fornire di cibo’, vedi ant.fr. manger, parola mediterranea (il logud. mandigáre ha diversa ricostruzione, dallo stato costrutto mân-dêq, ‘mangiare cose propizie’: mânu + dêq, damāqu ‘esser propizio’, cfr. lat. manducare).

Dovevano essere burloni, questi biḍḍíncuri, perché forgiarono pure un secondo epiteto: méngu. La stanzialità esasperata nel tavolato sassarese fu osservata da li biḍḍíncuri con divertita spocchia, e méngu, dallo stato costrutto accadico men-ḫū’u ‘amanti dei gufi’ (menû ‘amare’ + ḫū’u ‘civetta, gufo’), era il minimo che sos Thatharésos meritassero per l’esasperata vocazione a fare la guardia, a turno, ai propri orti anche di notte, al fine d’impedire gli sconfinamenti e i danneggiamenti delle greggi. Questa guardiania è nota persino dalla Carta De Logu. Méngu era d’uso mediterraneo, e infatti il cognome Mengo proviene dalla penisola: interpretato come vezzeggiativo aferetico di Menico, Domenico (così Pittau e De Felice) ha invece origine nel fenomeno suddetto, quello dei Romani coltivatori stanziali, che fu osservato da tutti i popoli prelatini (parlanti il substrato semitico). In tal guisa ci accorgiamo che ormai in Logudoro si stavano delineando due aree distinte, due lingue contrapposte. I Romani nel bassopiano sassarese e, sospinti sulle colline, gli “ex”, i Sassaresi in ciábi, da akk. qabû 'nome, chiamata (per nome); designare, nominare'. Sassarésu in ciábi significò 'Sassarese per definizione, Sassarese di nome (e di fatto)'.

I nuovi “Sassaresi”, ossia i Romani, rispondevano agli epiteti semitici con la maledizione tardo-latina la crozi mara!, che in latino ciceroniano fa malam crucem! Il mio professore di glottologia all’Università rimase di stucco a sapere che la terribile maledizione romana, rivolta ai non-romani (giuridicamente diversi), è ancora viva a Sassari. Segno che la catastrofe linguistica in questo territorio fu radicale.

E così ci fu pure il crollo della tradizione giuridica dei precedenti abitatori. Lo notiamo da questo: i Romani lanciavano la maledizione La crozi mara!, li Biḍḍíncuri rispondevano con l’epiteto “Tatharésu impicca-babbu”, sintagma interamente semitico: babbu è dal bab. abu ‘padre’, impicca è dal bab. pīqu ‘strangolare’. E così veniamo a sapere che dal padre ci si liberava strangolandolo. Il parricidio era un uso prettamente romano, per il fatto che il peculium della famiglia rimaneva sempre in potere del paterfamilias, ed i filii-familias maggiorenni e sposati, non potendo accedere a mutui di alcun tipo, erano spesso indotti al parricidio per subentrare nella disponibilità del peculium. Fu necessario il “senatoconsulto Macedoniano”, espresso sotto Vespasiano (69-79), per impedire che i parricidî continuassero, o almeno fossero meno numerosi. Ma intanto li Biḍḍìncuri, di lingua e diritto semitico, avevano già preso le loro vendette contro gli occupanti, e la nomea dura ancora.

E quando abbiamo accertato che Sassari e Silki (sum. ‘Terra lontana, separata’: sil ‘’remoto’ + ki ‘luogo, terreno’) hanno nome sumerico, che Porto-Torres ha nome sardo-fenicio, che Sorso e Sénnori hanno nome accadico, siamo già al centro d’una scoperta gigantesca, siamo al centro di quel famoso 50% di lemmi sardo-semitici da me conclamato. Il territorio sassarese ne è zeppo e, fatto salvo qualche toponimo latino (quale Ischàra di la ciògga, dal latino cochlea ‘lumachina’, oppure La Crucca, ugualmente dal latino cochlea, ciogga minuda, oppure ancora S.Michele di Plaiano dal latifondista latino Plarianus), per il resto ci troviamo in mezzo ad una lingua certamente fenicia, anzi sardiana, più antica del fenicio, una lingua shardana tout court.

Wagner sbagliò a scartare dai suoi studi la parlata sassarese in quanto ritenuta una costola dell’italiano antico. Parimenti ha sbagliato il Comitato che ha imposto sa Limba Sarda Unificada. Sassari conserva certamente una buona porzione d’italiano antico, nella misura in cui fu ripopolata da plebe gallurese in occasione delle due grandi pesti, ma resta intrisa delle parlate prelatine e prefenicie, né più né meno come le restanti popolazioni che chiamiamo biddíncuri. Il pre-latino è quello zoccolo duro dei Sassaresi che li accomuna a tutti i Sardi. Ma in più, ecco il punto, Sassari è maggiormente intrisa di latino, per avere origini direttamente urbane. L’origine romana dei cittadini di Tyrris e quindi di Thàthari si legge in filigrana ancora oggi nella iattanza e nel ridicolo orgoglio di essere cittadini contrapposti ai villani, complesso di superiorità duro a morire perché nacque come “marchio di fabbrica” della potenza imperiale. Ma gli studiosi di lingua sarda avrebbero dovuto vedere queste particolarità come una ricchezza della lingua sarda, anziché una conventio ad excludendum, una auto-denegazione di sardità, talchè trattano i Sassaresi come gli Algheresi che parlano catalano puro, escludendoli entrambi.

Ma torniamo al ricco dialetto sassarese. Quando si dice a uno Chi ti fària un ràju non s’intende che cada l’osso appuntito usato per lavorare l’asfodelo (dal latino radius) ma che gli cada un fulmine (dall’accadico raḫium ‘fulmine’, cui attinge anche lo spagnolo rayo!). Quando si nomina la cannaguru non s’intende, all’italiana, la volgare ‘canna del culo’. Il termine deriva dal babilonese ḫanāqu (+ suffisso sardiano -ru) che significa ‘strozzare, stringere, circondare in modo soffocante, uccidere strozzando’; indica insomma lo ‘sfintere’. È tipico dei Sassaresi mandare al diavolo uno dicendogli Escimìnni dall’iłtàmpa manna di lu curu, che è tutto un auspicio, mirato non solo a liberarsi del peso della persona molesta ma di vederla strozzata nell’uscire dall’intestino.

Ma l’invocazione più sconvolgente è senz’altro quella per cui i Sassaresi vanno famosi. E nel sentirgli spesso quell’espressione in bocca, l’estraneo li bolla come maleducati. Se qualcuno andasse in Marocco ed in tutto il mondo arabo, sentirebbe i musulmani, che pure non possono nominare il nome di Dio invano, ripetere ad ogni frase: Insciallàh, che significa ‘se Dio lo vuole’. Così è per i Sassaresi. Perché questo termine venerando, da noi esportato persino nel resto d’Italia al tempo dei Pisani, non è altro che una invocazione all’effige del Dio onnipotente. Le donne non la dicono più, perché quei pervasivi dei Gesuiti spagnoli le convinsero ad invocare la Madonna, ed ancora oggi, per ogni motto di paura o di dolore, la donna logudorese dice Soberana! ossia ‘Sovrana!’. Mentre l’uomo dice ancora Cazzu! che significa, letteralmente, ‘Dio mio!’, ed è riferito alla ‘immagine di Dio’, derivando dal babilonese kattu. Il termine è molto simile a quello dei cagliaritani, che nei momenti di sorpresa o di dolore dicono Tadannu!, dall’accadico Dandannu, che è appunto una invocazione al Dio onnipotente.

Il territorio sassarese è zeppo di termini shardana, come Serra Secca, il cui etimo sembra sin troppo facile ma denuncia una sovrapposizione di concetti antico/moderni che però vale la pena esaminare. Quartiere cittadino, che a metà ‘900 era ancora campagna, Serra non è dallo spagnolo sierra ‘cresta seghettata aspra e arida’, neppure Secca significa ‘arida’. Serra ha la base nell’ugaritico ṭrr (pronunciato tzerra) ‘ricco d’acqua’; Secca è dall’accadico šīḫu ‘insediamento di fattorie’: Serra Secca significò ‘insediamento di fattorie irrigue’. Serra Secca è simile al toponimo campidanese Serramanna, paese perfettamente pianeggiante al centro della grande pianura del Campidano, posto alla confluenza dei due fiumi maggiori; prima delle canalizzazioni dell’Ente Flumendosa era l’unica area irrigua del meridione. La base etimologica è l’ugaritico ṭrr ‘ricca d’acqua, bene irrigata’ + sum. maḫ ‘grande, potente’ (da cui lat. mag-nus). Altri invece traducono come ‘grande dorsale montagnosa’, lasciandosi inviluppare dalla paronomasia e coprendosi di ridicolo.

Serra Secca era pure la via dei disperati, perché una variante viaria, l’antica strada nuragica poi diventata romana ed infine nota come l’ex “Carlo Felice”, conduceva direttamente alla Rocca di Chighizu, la rupe dei suicìdi, declassata a innocua falesia soltanto dopo che Mussolini ebbe fabbricato un surrogato cittadino per i suicidî, il Ponte di Rosello. Chighizu ha la base nell’akk. kikkišu ‘recinzione, palizzata’ (in Mesopotamia non esistono né monti né baratri: le verticalità erano espresse da mastodontici incannicciati riempiti di fango), e in Sardegna indica le falesie di calcare bianco.

E se La Landrigga, ‘il salto dei porcari, il ghiandatico’ ha un tipico nome latino (da glans, glandis ‘ghianda’, onde *glandicola > *landiricola > Landrigga), il selvaggio Monte Alváro nella Nurra di Campanedda non ha origine spagnola né italiana ma babilonese e significa ‘aspro e selvaggio, non coltivabile’, come i numerosi monti Alvu, Arbu o Albo della Sardegna e come la stessa Barbàgia, che i Romani per paronomasia ritennero riferita ai barbari e la chiamarono Barbaria mentre per gli Shardana, che la chiamavano *Arbaria, significava soltanto ‘territorio non adatto all’agricoltura’, dall’akk. arbu ‘incolto, selvatico’.

La Valle di Giòscari ha le basi semantiche nell’aramaico-cananeo Ziw ‘(Mese della) fioritura’ + akk. ḫārru ‘canale, corso d’acqua’. Giòscari (da Ziw-ḫārru) significa ‘il rivo della primavera’. Buḍḍi-Buḍḍi a sua volta significa ‘la valle dei canneti’, dall’assiro budduru ‘fascio di canne’. La Sardegna è piena di toponimi riferiti alla canna ed ai suoi manufatti, segno che la canna serviva molto, non solo per le launèḍḍas, il cui nome composto significa ‘gote gonfiate’, dal babilonese laḫu ‘bocca, gote’ e nīlu ‘ingolfare, inondare’, che produsse un *laḫunellas > launèḍḍas.

Sulla storia della canna in Sardegna, i toponimi narrano tutto. Ma ciò accade anche per la palma nana, che un tempo doveva essere produttiva, visto che in Sardegna abbiamo una autentica pletora di toponimi a lei riferiti, nonchè il cognome Talu. Dal nome comune ebraico tâlu ‘giovane palma da datteri’ abbiamo parecchie varianti, tutte riferite a vere e proprie foreste di palme (di cui la Sardegna allora era zeppa). Tratalìas è una di queste varianti, che per l’importanza della foresta subì persino il raddoppio fonetico: *Tal-tal-ìas (che poi per la metatesi e la rotacizzazione tipica del sud Sardegna divenne Tra-Tal-ìas.
SÌNNAI

Questo nome di un comune del Campidano di Càgliari è ebraico. Appare in RDSard. a. 1341 come Sinay ma la più antica apparizione è nella Carta sarda di S.Vittore di Marsiglia, scritta in caratteri greco-bizantini per ragioni di privatezza ma per il resto è in lingua sarda schietta. La sua grafia è Σίνναη (ricostruzione di Pilinski-Wescher), da leggere Sìnnai.

Nella Bibbia il termine appare spesso a nominare il celeberrimo Monte Sìnai (Esodo 16,1; 19, 1-2; Numeri 10,12; e passim). La forma ebraica era scritta anticamente con la -i- lunga ma talora breve, ossia Sīnai e Sināi (סִינָי e סִנַי, pronuncia Sìnai e Sinái). Oggi gli Ebrei, che sono i più attenti filologi del proprio testo sacro, traducono con la -i- breve e la -a- lunga, pronunciando quindi Sinái. Naturalmente nella Vulgata di san Girolamo il nome non poteva che essere scritto alla latina, con la -ī- lunga, che in italiano produce l’accentazione sdrucciola (Sìnai). Non è un caso quindi se ancora oggi, dopo quasi due millenni, la pronuncia del toponimo in provincia di Cagliari rispecchia l’ambigua accentazione dell’uso antico. Nei testi sardi prevale l’accentazione alla latina: Sìn(n)ai, ma gli abitanti giurano che un tempo si pronunciava Sinnái, termine che l’etimologia popolare riporta impropriamente alla “segnatura” del bestiame. Anzi, va detto che volgarmente il toponimo è pronunciato dal popolo anche Sínnia (ancora una volta riferito, per etimologia popolare, alla segnatura del bestiame). Non c’è male come indifferenza filologica. In realtà, i Sinnaesi non si rendono conto che Sínnia è un aggettivale riferito a

Sîn 'Dea Luna' (in ebraico, aramaico, accadico, ugaritico) + akk. -ni 'di noi, nostra' (suff. genit. plur.): Sînni = Nostra Signora. + suff. (paragogica femm. ebr.) -ah: Sìn-ni-ah.

In ogni modo questo toponimo non è il solo in Sardegna. Abbiamo anche Sini, villaggio situato sulle basse falde della Giara di Gésturi, attestato in RDSard. aa. 1346-1350 come Silli, poi Cilli e poi ancora Cini. Queste grafie antiche sono martoriate ed occorre molta acribia per proporre un toponimo “ripulito” ed enucleare una traduzione. Anche qui, come per numerosi altri villaggi sardi, la prima o le prime apparizioni del nome, avvenute per fini esclusivamente fiscali, sono la spia d’una forte resistenza degl’indigeni alla “schedatura”, talchè scaturivano nomi che solo col passare degli anni venivano aggiustati dall’occhiutissimo sistema di dominio (sia spagnolo sia clericale). È verosimile dunque che soltanto il terzo toponimo, Cini (da scrivere sicuramente Çini), sia quello giusto, essendo peraltro lo stesso che poi si è tramandato sino ad oggi. Esiste anche un cognome Sini, indicante gli individui originari del villaggio.

Così ricostruito, Sini va raffrontato con Senis (comune che si trova all’altro lato della Giara), del quale è un allotropo, e richiama anche il toponimo Sìnnai. In Sardegna (lo deduciamo da molti toponimi che lo nominano) era fortemente adorato il Dio Luna (essenza semitica maschile), l'accadico Sîn che si assimila alle antiche forme tradizionali sumeriche di analoghe divinità, soprattutto Nanna di Ur, e diviene un dio dai caratteri universali, largamente venerato anche al di fuori della Mesopotamia. Anche in aramaico il Dio-Luna è Sîn. Tornando a Sìnnai (antico Sìnai), alcuni glottologi fanno derivare per lo più il coronimo-oronimo Sìnai proprio dal nome del dio Sîn. E comunque, è proprio in aramaico che sono attestati anche dei nomi di luogo: Sinna, Sīnī, che i linguisti hanno qualificato come nomen populi, da cui l’attuale pronuncia del toponimo Sìnnai, che il popolo chiama Sìnnia.

È probabile che il toponimo Sìnnai sia una rara sopravvivenza documentale dell’insediamento di una parte, sia pure esigua, dei 4000 Ebrei trasferiti in Sardegna nel 19 da Tiberio per combattere gli Ilienses. Questo reperto documentale è tutt’altro che peregrino, ed ha probabilmente avuto origine da ragioni insieme strategiche e geografiche. Strategiche, in quanto è immaginabile che quei giovani semiti, trasferiti a forza per ragioni di ordine pubblico, non fossero lasciati da soli ma fossero inquadrati, per questioni di disciplina, di arte marziale e di efficienza tattica, assieme ad altre unità insediative e combattenti più “lealiste” (occorre supporre al riguardo che la parte lealista fosse già insediata nel contiguo villaggio dominante di Segossìni: vedi al lemma). Non solo, ma proprio sul villaggio di Sìnnai (e di Segossìni), e per riflesso sulla vicina Karalli (Karallu) gravava la pressione dei montanari Ilienses viventi sull’acrocoro che occupa tutto il corno sud-orientale dell’isola (vedi al riguardo la discussione sui lemmi Gregòrio e Sa Lilla).

Questo villaggio – unito al contiguo Segossìni – doveva essere dunque la base di partenza per ogni attacco (o contrattacco) avverso i montanari che insidiavano il vasto territorio coltivato attorno a Karalis, ed era di importanza strategica. Che fosse chiamato Sìnai può avere le sue ragioni proprio nella strategia militare, a connotare etnicamente il sito ebraico dov’era insediato il nerbo dei difensori del limes. Ma quel nome potè essere stato facilitato dal contiguo toponimo Segossìni (vedi), anch’esso epiteto del Dio Luna.

Si deve ammettere che tali ebrei, essendo stati assoggettati alla leva, dei militari avevano pure lo stato giuridico, che non era di poco conto. La libertà di dare il nome più adatto al proprio villaggio-caserma era un atto dovuto come contropartita dell’esilio; non solo, essi dovettero poi essere trattati con le gratificazioni che furono tipiche di ogni leva di veterani (attribuzioni di terre), anzi con le gratificazioni che poi ritroviamo presso i kabaḍḍaris, i cavalieri bizantini insediati nei limites sardi con attribuzione di ampie proprietà terriere come garanzia reciproca della fissità dell’insediamento.

Ci sono ragioni geografiche che suffragano quanto sinora detto. Nel 1861, con l’Unità d’Italia, Sìnnai (da tempo unificata a Segossìni) risultò essere il comune sardo con maggiore superficie territoriale (in proporzione agli abitanti): possedeva nientemeno che l’intero corno sud-orientale della Sardegna, un territorio immenso. Non c’è altra spiegazione a ciò, se non che fu proprio e soltanto Sìnnai (rafforzata dagl’indigeni di Segossìni) ad avere avuto l’incarico di controllare, già da epoca romana, quell’immensa estensione priva d’insediamenti. È immaginabile che col passare dei secoli i semiti divenissero maggioritari rispetto ai Segossinati. E che fossero semiti lo dimostrerebbe pure l’oronimo Bruncu su Gattu (sui Sette Fratelli), per il quale va seguita la discussione circa il lemma Cazzu. Che poi questi semiti fossero a maggioranza ebrei sembrerebbe dimostrarlo il Monte Sette Fratelli, il cui nome la diceria popolare (seguita pedissequamente dagli eruditi) deriva dalle “sette punte”. Stantia storiella ripresa persino dal Lamarmora, il quale dimostra di non averle mai raggiunte (peraltro la vetta più alta può essere raggiunta solo con acrobazie alpinistiche, quindi era impossibile metterci il punto trigonometrico). Egli evidentemente ascese il Monte (assieme al professor Mori) lungo la strada romana, dove ai primi del Settecento il Padre Salvatore Vidal di Maracalagònis aveva fatto erigere un convento.

Dall’epoca del Vidal le dicerie erano divenute due: sette punte e setti fradis, che fanno ‘sette fratelli’: c’era l’imbarazzo della scelta. In realtà, i frati non erano sette e neppure le punte sono sette. Altra caratteristica del Monte è che alla base delle punte non c’è mai passato nessuno, almeno dal Medioevo. Le stesse carbonaie di fine ‘800 si fermano prima delle vette. Manca ogni e qualsiasi segno antropico di carattere diacronico. È stato il Club Alpino Italiano ad averle fatte conoscere tracciandoci il “Sentiero Italia” sul finire del XX secolo. La prova della loro intangibilità viene anche da un’altra rupe del Monte, chiamata S’Eremígu Mannu ‘il Grande Nemico’: ossia il Diavolo; nonché il vicino sito chiamato Poni Fogu ‘attizza fuoco’. Entrambi sono nomi attribuiti con tutta evidenza ad opera dei preti bizantini, che avevano buone ragioni per rendere fosca ed impraticabile questa montagna, che prima di loro veniva ascesa per la sacralità positiva. Poni Fogu doveva essere il sito sacro del Fuoco Perenne, S’Eremigu Mannu doveva essere il vicino sito dove stazionavano i celebranti del Fuoco Sacro. Bruncu su Gattu (dove c’è un nurághe) potè restare col proprio attuale significato (ossia quello di ‘gatto’), oramai lontano dal vero significato che indicava l’effigie di un dio del pantheon assiro-cananeo. Ma è principalmente quel fatidico Sette ad essere inconfondibile: era il numero sacro degli Ebrei, trasferito alla Montagna Sacra che stava al centro dei loro vastissimi possedimenti. La pervicacia del nuovo clero riuscì a sopprimere questo grumo di religione ebraica.

Non possiamo chiudere questa discussione senza addurre un’altra etimologia, stavolta etrusca ma quasi identica a quella proponibile per Sini, quella di Sîn ‘luna’. Semerano (OCE 895) ricorda che «gli Etruschi, nel chiamare il giorno tin, cioè Sin ‘luna’ inducono a ricordare che questa è la base del calendario paleo-mesopotamico e semitico in genere: il giorno ha inizio dalla sera, al calar del sole. La Luna, una delle più grandi divinità, più importante del Sole nel culto dei primitivi, è auspice della fecondità delle piante come degli uomini al culmine dei suoi nove cicli; è ordinatrice perenne nella sfera fugace del tempo. Ordinariamente in mesopotamico, in fenicio ed in aramaico la Luna era un dio maschile, ed era chiamato proprio Sîn. Non possiamo non concludere questa discussione senza fornire anche una altra fonte etimologica, Etrusca questa volta, ma quasi identica a quella proposta per Sini.

                   ARCHEOLOGIA
         
Storia antica

La Sardegna ha rivelato nel 1979 i suoi più antichi abitatori: non si trattava di resti dell'homo faber ma di manufatti in pietra (selce) che rivelavano la loro appartenenza al Paleolitico Inferiore, circa 250.000 anni da noi.

Tali materiali si sono individuati nei territori di Perfugas e Laerru, nella Sardegna Settentrionale, e denunziavano il passaggio dell'uomo paleolitico nell'isola attraverso l'arcipelago toscano e la Corsica, in un periodo in cui il livello del mare, più basso di circa 100 metri rispetto a quello odierno, aveva saldato Sardegna e Corsica, lasciando uno stretto canale tra il Capo Corso e il promontorio continentale, oggi ridotto alle isole toscane.

Di quel tempo mancano dati circa la presenza umana nell'isola, che si riscontra solo nel Paleolitico superiore finale in una Grotta di Oliena, nel Nuorese.

Non è dato constatare un fitto popolamento dell'isola prima del Neolitico antico (circa VI - V millennio a.C.), allorquando il nostro antenato è documentato ai quattro angoli della Sardegna. Risorsa fondamentale per l'uomo neolitico (e successivamente per quello dell'eneolitico) fu il ricchissimo giacimento di ossidiana del Monte Arci, dietro il lunato golfo di Oristano. L'ossidiana, infatti, è un vetro vulcanico che le popolazioni preistoriche del Mediterraneo, dell'Egitto e del Vicino Oriente utilizzarono ampiamente per realizzare lo strumentario domestico e le punte di freccia e di zagaglia per la caccia. Nel gran mare l'ossidiana esiste solo nell'isola di Melos, in quella di Pantelleria, a Palmarola e in Sardegna.

Dalla Sardegna si sviluppò un intenso traffico di ossidiana che raggiunse, spesso in concorrenza con le altre fonti, la Corsica, l'Italia centro-settentrionale, la Francia meridionale e la Catalogna.

Le popolazioni neolitiche della Sardegna, dedite all'allevamento, vivevano in villaggi, e solitamente seppellivano i loro morti entro tombe a camera, scavate nella roccia, talora monocellulari, ma più spesso pluricellulari fino a 18 vani ipogei. Si tratta delle celebri Domus de Janas, le "case delle fate", cosidette dalla tradizione sarda che vi riconosce le abitazioni di minuscole e leggiadre fatine, che tessevano trame dal colore dell'arcobaleno nei loro telai d'oro. La ricerca archeologica ha documentato da un lato il vastissimo areale di queste tombe, spesso riunite in vere e proprie necropoli, da Alghero (Anghelu Ruju) alla Gallura, dal Logudoro alle Barbagie, dal Campidano al Sulcis, dall'altro la loro cronologia estesa dal neolitico medio (IV millennio a.C.) sino al principio del II millennio a.C.

Altri tipi tombali sono costituiti da dolmen e da circoli megalitici, espressione di un ambiente a prevalente vocazione pastorale (Gallura, Gerrei).

Il culto di questo antichissimo popolo Sardo era rivolto verso una Dea Madre, rappresentata da numerose statuine femminili in pietra, osso e terracotta, e verso un Dio Toro, attestato principalmente dalle corna taurine dipinte o scolpite nelle pareti delle Domus de Janas.

Espressione del culto maschile (talvolta anche femminile) sono i menhir, le pietre fitte, che raggiungono in qualche caso altezze superiori a cinque metri (Monti Corru Tundu-Villa S. Antonio; Sa Perda de Luxia Arrabiosa-Villaperuccio).

Un tempio singolare dell’eneolitico antico in Sardegna è quello di Monte d’Accoddi, una sorta di ziggurat, con paramento in apparecchio megalitico, composto da due terrazze che recavano alla sommità una "camera rossa", fulcro delle attività cultuali. Secondo un’interpretazione la ziggurat sarda sarebbe un prestito culturale del vicino oriente, travestito in forme "occidentali", mentre altri studiosi considerano il santuario di Monte d’Accoddi perfettamente inseribile nei quadri culturali eneolitici della Sardegna, senza ammettere alcuna influenza esterna.

La civiltà nuragica, peculiare della Sardegna, si inquadra nell’ambito della età del bronzo, fra il 1800 a.C. e il IX secolo a.C.

Partendo da premesse architettoniche megalitiche risalenti all’eneolitico medio, nel quadro della cultura di Monte Claro (complessi fortificati di Monte Ossoni e Monti Baranta, Muraglia di Cuccurada-Mogoro), la civiltà nuragica elabora l’architettura del nuraghe in forme differenziate tra gli pseudo-nuraghi e i nuraghi "classici", caratterizzati dalla "falsa cupola" interna o "tholos". Sono questi ultimi ad assumere un aspetto grandioso con formulazioni plano-volumetriche realmente imponenti, come nel caso del nuraghe Orrubiu di Orroli, il Su Nuraxi di Barumini, il Losa di Abbasanta o il Santu Antine di Torralba.

La tholos si riscontra frequentemente nell’architettura micenea, sicché si è ipotizzato assai per tempo, sulla scia di una affermazione ricorrente nelle fonti greche, che i nuraghi a tholos avessero risentito dell’influenza architettonica micenea.

Attualmente si ritiene che le tholoi siano una evoluzione delle coperture piattabandate e poi ad aggetto degli pseudo-nuraghi, anche in considerazione della cronologia elevata delle più antiche tholoi (XVI-XV secolo a.C.) e della recenziorità degli effettivi rapporti tra Micenei e Sardi, a partire dal Mic III A (XIV secolo a.C.) ma soprattutto estesi nel Mic III B e C fino a circa il 1050 a.C. Ciò non significa che alcuni specifici ammaestramenti architettonici non siano da attribuirsi ai Micenei, tenuto anche conto che uno dei più arditi e complessi nuraghi della Sardegna, l’Orrubiu di Orroli, ha restituito a livello di fondazione della torre centrale un alabastro del Mic III A, che indica un sicuro rapporto tra i Sardi costruttori del nuraghe di Orroli e i Micenei, penetrati attraverso la valle del Flumendosa sino all’altopiano orrolese.

In ogni caso l’architettura nuragica si raccorda con le costruzioni megalitiche proprie della cultura torreana in Corsica e della cultura talaiotica delle Baleari, a significare una comunità occidentale del megalitismo dell’età del Bronzo, pur nella peculiarità degli accenti locali.

Il nuraghe è un edificio polifunzionale: se è da considerarsi superata la polemica ottocentesca tra i fautori dell’interpretazione funeraria e gli assertori della natura abitativa del nuraghe, le comparazioni etnologiche suggeriscono di vedere nel nuraghe una struttura legata ad un tempo all’autorappresentazione della comunità, alla necessità dello stoccaggio delle risorse primarie, alla difesa e, in alcune parti degli edifici più complessi, anche al culto. Esemplare sotto questo profilo è il nuraghe Su Mulinu di Villanovafranca, sorto secondo la tecnica architettonica degli pseudo nuraghi e arricchitosi di ambienti voltati a tholos, che ha rivelato un ambiente perfettamente conservato con il gigantesco altare foggiato a nuraghe turrito con i resti dei sacrifici.

La società della Sardegna nuragica dell’età del Bronzo è una società fortemente gerarchicizzata, con un capo delle singole comunità cantonali, dei militari, dei sacerdoti e delle sacerdotesse.

Si trattava di piccole comunità di villaggio (si conoscono almeno 250 villaggi nella Sardegna nuragica), con una particolare sepoltura collettiva che annullava le peculiarità individuali (la Tomba di Giganti), e, ma non sempre, uno o più luoghi di culto del singolo villaggio.

Esistevano anche santuari federali, incentrati su un tempio a pozzo ma anche su altri tipi di tempio, come quelli a megaron, che non riuscirono mai, a causa del particolarismo dei cantoni nuragici, a realizzare una unità insulare dei Sardi.

La riprova di tale situazione politica è da un lato rintracciabile nella distruzione di vari complessi nuragici nella tarda età del Bronzo, evidentemente determinata da conflitti locali, dall’altro nella sconfitta storica subita dai Sardi ad opera dei Cartaginesi sullo scorcio del VI secolo a. C.

A partire dal IX secolo a.C, cessa la costruzione dei nuraghi benché i nuraghi stessi continuino ad essere insediati. Nasce, in seno alla civiltà che continuiamo a chiamare nuragica, una società più dinamica della precedente con un tipo di struttura aristocratica. Il lievito di tale stagione aristocratica fu costituito da un lato dall’accumulo di intense ricchezze soprattutto minerarie, dall’altro da un’articolata politica dello scambio in chiave mediterranea.

I sardi navigano dal Mediterraneo orientale a quello occidentale e oltre nell’Atlantico gaditano: materiali sardi sono documentati a Creta, nelle isole Lipari, in Sicilia, in Calabria, a Cartagine, a Cadice, ma la gran parte dei documenti si concentra in area etrusca tra il IX e il VII secolo a.C.

I Sardi commerciano con Fenici, Etruschi e Greci. I Fenici sin dallo scorcio del IX secolo a.C. sono presenti negli empori indigeni, come documenta in particolare il caso di Sant’Imbenia, al fondo del Porto Conte d’Alghero, che ha restituito vasellame greco e fenicio, sigilli scarabei, anfore vinarie fenicie e indigene etc.

La Sardegna possiede, rispetto alle altre aree di colonizzazione fenicia occidentale, il supporto di tre testi epigrafici fenici riportabili probabilmente alla seconda metà del IX-prima metà dell'VIII secolo a.C., due di Nora, uno di Bosa, che devono connettersi a centri urbani già costituiti o, almeno, a santuari fenici.

L'unica iscrizione conservata per intero, la "stele di Nora", parrebbe essere un testo votivo consacrato al dio di origine fenicio-cipriota Pumai.

Le fonti antiche, d'altro canto, si accordano nel riconoscere in Nora, sulla costa meridionale della Sardegna, la più antica città dell'isola. Scrive infatti Pausania (X, 17, 4): "Dopo Aristeo giunsero in Sardegna gli Iberes con a capo Norax e da loro fu fondata la città di Nora. Questa è la prima città che le fonti ricordino fondata nell'isola. Si dice anche che Norax fosse figlio di Erytheia, generata da Geryon, e di Ermes".

Questo mito di fondazione è assai importante in quanto connette Nora con Erytheia, la ninfa eponima dell'isola di Erytheia, dove sorse il centro urbano di Gadir, la più importante fondazione fenicia dell'Iberia che attivò una rete di rapporti con i centri fenici dell'Andalusia, dell'Algeria e del Marocco, al di quà e al di là dello Stretto di Gibilterra, definito dall'archeologo Miguel Tarradell il "circuito dello Stretto ".

Le scelte topografiche dei Fenici in Sardegna ripetono i caratteri della colonizzazione occidentale, con la preferenza accordata alle piccole isole (San Vittorio dell'isola di San Pietro), ai promontori (Nora, Bithia, Tharros), alle lagune (Karales, San Giorgio di Portoscuso, Othoca-Santa Giusta), alle foci dei corsi d'acqua (Sarcapos, Bosa).

Gli stanziamenti fenici in Sardegna si scaglionano tra la foce del Flumendosa (Saipros potamos) sulla costa tirrenica e la foce del fiume Temo (Temos potamos) sul litorale centrooccidentale. L'assenza di centri fenici sulle coste nordoccidentali, settentrionali e orientali (ad esclusione del settore sudest) della Sardegna non ha ancora una soluzione definitiva, benché sia probabile che un rapporto privilegiato delle comunità indigene del nord est con i centri villanoviani prima ed etruschi poi, tra X e VIII secolo a.C., abbia impedito ai fenici la fondazione di colonie, benché sia documentata la presenza emporica fenicia sia sulla costa (Sant'Imbenia-Alghero), sia all'interno.

Gli insediamenti fenici della Sardegna, costituiti entro l'VIII secolo a.C., furono alla base della maggior parte dei centri urbani cartaginesi e romani, benché le ricerche più recenti abbiano dimostrato l'esistenza di una rete ampia di piccoli centri fenici costieri o subcostieri privi di continuità urbana punica e romana.

Il fenomeno citato si manifesta in tutta la sua ricchezza nella Sardegna sud occidentale, indubbiamente in relazione alle risorse metallifere (piombo, argento, ferro) dell'Iglesiente che dovettero, comunque, restare in mani indigene sino all'avvento di Cartagine allo scorcio del VI secolo a.C.

Con la conclusione della battaglia del Mare Sardonio la Corsica fu aperta al predominio etrusco, mentre sulla Sardegna, probabilmente in virtù degli accordi stipulati tra Cartagine e le città etrusche prima dello scontro navale, ebbero mano libera i Cartaginesi.

La conquista dell'isola da parte delle armate puniche non fu, comunque, impresa semplice: il comandante dell'esercito cartaginese, chiamato dalle fonti Malco, ossia forse con il titolo punico di "re", dopo aver assoggettato a Cartagine la Sicilia occidentale con le tre città fenicie di Mozia, Panormo (Palermo) e Solunto, si rivolse verso la Sardegna, risultandone sconfitto.

La notizia tramandata da Giustino (XVIII, 7, 1) e da Orosio (IV, 6, 6-7), inquadrabile intorno al 540 a.C. circa, non è facilmente interpretabile: alcuni studiosi a partire da Michel Gras l'hanno riferita alla battaglia del mare Sardonio, altri hanno invece ipotizzato una sconfitta dei soldati cartaginesi da parte dei Sardi attraverso operazioni di guerriglia, altri ancora, infine, hanno attribuito alle città fenicie della Sardegna il merito della sconfitta di Cartagine.

La sconfitta determinò una sanguinosa rivoluzione interna della città africana, con la presa di potere da parte di Malco e la sua definitiva sconfitta ad opera di Magone. La Sardegna, sempre secondo Giustino (XIX,1, 3-6) divenne oggetto di una seconda spedizione navale sotto il comando di Asdrubale e Amilcare, figli di Magone. Asdrubale, ferito nel corso della guerra sarda, morì nell'isola, dopo aver passato il comando al fratello Amilcare. Fu questi che entro il 510 a.C. ebbe la meglio sulla resistenza anticartaginese ottenendo il dominio della Sardegna costiera e dei territori più importanti sul piano economico: l'Iglesiente minerario, i Campidani e le colline della Trexenta e della Marmilla finalizzati alla coltura cerealicola.

L'avvenuta conquista della Sardegna è sancita dal primo trattato fra Roma e Cartagine, ascritto al 509 a.C. da Polibio (III, 22): "le intese commerciali non abbiano valore giuridico se non siano state concluse davanti ad un araldo o uno scriba. Delle merci vendute alla presenza di questi il venditore abbia garantito il prezzo dallo Stato (cartaginese) se il commercio è stato concluso nella Libye o in Sardegna". Polibio (III, 23, 5) da tale clausola deduceva che "i Cartaginesi consideravano la Sardegna e la Libye come terre loro".

La documentazione culturale e archeologica della conquista punica della Sardegna è offerta dai livelli di distruzione di alcuni centri fenici, quali Cuccureddus presso Villasimius e Monte Sirai, riportabili alla seconda metà del VI secolo a.C., e di decadenza di altri, quali Bithia e Sulci. Inoltre, sono attestate l'introduzione nelle varie città di un nuovo tipo di sepoltura a inumazione e innovazioni rituali nel tofet (l'introduzione delle stele di tipo cartaginese).

Tali elementi, di matrice punica, impongono di credere che la conquista della Sardegna importasse l'afflusso di cittadini cartaginesi e di masse libiche nell'isola destinati ad assicurare gli uni l'affermazione di nuovi gruppi dirigenti delle antiche città fenicie, le altre l'attivazione di una prioritaria monocoltura cerealicola, funzionale ai bisogni metropolitani di Cartagine e agli eserciti mercenari attivi soprattutto in Sicilia, ma anche in Africa tra il V e i primi decenni del III secolo a.C.

La politica cartaginese nell'isola dovette avere una profonda incidenza fiscale, connessa all'acquisizione del grano come tributo, mentre è facilmente ipotizzabile che i prodotti minerari fossero di pertinenza pubblica.

Le dure condizioni dei lavoratori, in parte liberi, ma in parte di rango servile, costretti al lavoro nei campi in ceppi, dovettero sortire un diffuso malcontento che si tradusse in un'occasione in aperta rivolta. Narra Diodoro (XV, 24, 2) che nel 379 a.C. "tra gli abitanti di Cartagine scoppiò un'epidemia di peste così violenta che causò loro molte vittime e rischiarono in tal modo di perdere le redini del potere; infatti i Libi non tenendo loro più in alcun conto, si ribellarono e anche gli indigeni della Sardegna, pensando fosse questa l'occasione propizia per opporsi ai Cartaginesi, si ribellarono, e facendo causa comune con loro attaccarono i Cartaginesi". Con un'iniziativa militare rivolta ai ribelli in Africa e Sardegna Cartagine ebbe modo di riaffermare il proprio potere, ma dovette nel corso dei decenni centrali del IV secolo fronteggiare le mire sulla Sardegna da parte dei Siracusani e dei Romani. I primi, soprattutto con Dionigi il Vecchio, intervennero nell'alto Tirreno con azioni di pirateria e di colonizzazione, giungendo a fondare un Porto Siracusano sul litorale sud orientale della Corsica e a interessare con le loro navigazioni le Bocche di Bonifacio e gli approdi della Gallura, in particolare quello di Santa Teresa, detto Longone, un termine siracusano significante "porto". Inoltre un marinaio Fintone, secondo l'ipotesi di Paola Ruggeri, sarebbe perito in occasione di un naufragio, cantato in un'epigramma di Leonida nell'Antologia Palatina, presso l'arcipelago maddalenino, lasciando il suo nome ad un'isola, forse Caprera, detta "di Fintone". Infine nel 310 a.C. si diffuse in ambito cartaginese la voce secondo cui il tiranno siracusano Agatocle si sarebbe mosso a compiere scorrerie in Italia o verso la Sardegna, e non, come in effetti avvenne, a portare la guerra in Africa (Giustino, XXII, 5, 2).

I Romani, intorno al 378 a.C., costituirono una colonia latina in Sardegna (Diodoro XV, 27, 4), forse identificabile con Pheronìa, l'odierna Posada, così denominata da una dea italica, il cui culto aveva fatto presa sugli elementi plebei di Roma. La reazione cartaginese, se non annientò la colonia, riuscì ad assimilarla nel quadro del dominio sulla Sardegna. A questo episodio, probabilmente, deve fare riferimento la clausola del II trattato fra Roma e Cartagine, del 348 a.C., che afferma: "in Sardegna e in Libye nessun romano commerci né fondi città e non vi rimanga più di quanto occorra per imbarcare provviste e riparare la nave. Se vi sarà stato spinto dalla tempesta si allontani da quelle regioni entro cinque giorni" (Polibio, III, 24, 3).

I successivi trattati con Roma del 306 a.C. e del 280 a.C. rinnovarono l'accordo tra le due potenze sulle rispettive sfere d'influenza e di dominio, restando assegnata la Sardegna, saldamente, a Cartagine. Con lo scoppio della I Guerra Punica (264 a.C.) si ruppe la tradizionale alleanza romano-cartaginese e sin dal 262 a.C. i Cartaginesi "trasferirono il grosso del loro esercito in Sardegna allo scopo di costituire, in quella regione, una base d'attacco contro Roma" (Zonara, VIII, 10).

Le successive battaglie, tra Romani e Cartaginesi, di Olbia e di Sulci, rispettivamente del 259 e del 258 a.C., diedero a Roma le prime vittorie connesse alla Sardegna, senza che seguissero tentativi di occupazione, poiché la guerra incentrata nella Sicilia e successivamente con Attilio Regolo in Africa non proseguì in Sardegna.

La pace delle isole Egadi (241 a.C.) e la guerra dei mercenari cartaginesi divampata tra Africa e Sardegna costituirono per Cartagine gli eventi salienti che portarono alla perdita della Sardegna nel 238/237 a.C. a favore dei Romani.

La Sardegna punica costituì una realtà politica, economica e culturale destinata a una storia di lunga durata ben al di là della fine del dominio di Cartagine nell'isola.

Le fonti antiche sottolineano, sotto i Cartaginesi, una decisa cesura tra le aree a più forte sviluppo economico - le coste e le fasce pianeggianti - e le zone montane. In queste ultime avrebbero trovato rifugio, in un periodo precedente il dominio cartaginese, i Sardi che per conservare la propria libertà rinunziarono alla coltivazione del grano, trasformandosi in allevatori di bestiame e nutrendosi di latte e carne.

Secondo Diodoro (IV, 30) "prima i Cartaginesi e poi i Romani li combatterono spesso, ma fallirono il loro obiettivo". Pausania (X, 17, 5) "i Cartaginesi nel periodo in cui erano potenti per la loro flotta, sottomisero tutti coloro che si trovavano in Sardegna ad eccezione degli Iliesi [localizzati nel Marghine e nel Goceano] e dei Corsi [in Gallura], per i quali fu sufficiente la protezione delle montagne per non essere asserviti".

Allorquando i Romani si attestarono ad Olbia, forse sin dal 259 a.C., certamente dal 238/237 a.C., all'atto della presa di possesso della Sardinia, che avvenne, testimone Zonara, "senza combattere", la loro preoccupazione primaria fu quella di costituire una linea di difesa dell'entroterra della città dagli attacchi portati da settentrione dai bellicosi populi indigeni dei Corsi (localizzati nella Gallura nord orientale) e dei Balari (fissati nel cuore del Limbara, nell'area a occidente del Riu Scorraboès, al confine tra i territori di Monti e Berchidda)

Le fonti antiche segnano per il 232 a.C. l'intervento militare, in Sardegna, di entrambi i consoli in carica, M. Emilio Lepido e M. Publicio Malleolo. L'esercito romano avrebbe guadagnato un'abbondante preda a spese dei Corsi, ma in un secondo scontro, sorpresi dai nemici, i Romani avrebbero dovuto abbandonare nelle mani dei Corsi il bottino loro strappato. Il problema interpretativo della vicenda è costituito dalla identificazione di questi Corsi, considerati da taluno i Corsi della Corsica, ma dai più i Corsi della Gallura. Se questa interpretazione coglie nel segno noi siamo portati a ricostruire la topografia degli eventi del 232 in relazione al territorio in esame. Ha scritto al riguardo Piero Meloni: "Il dominio romano nell'isola doveva essere limitato, in quegli anni, ai centri sardo-punici della costa sud occidentale con il loro retroterra... e al centro ... di Olbia. Sforzo costante deve essere stato, senza dubbio, quello di collegare le due teste di ponte e rendere stabile e sicuro questo collegamento; uno dei punti più deboli era il passaggio obbligato che dal retroterra di Olbia porta all'odierna pianura di Chilivani, incassato fra l'altopiano di Buddusò ad oriente e i monti granitici della Gallura ad occidente: in quest'ultima regione erano stanziati i Corsi di Sardegna. Di questo passaggio la posizione chiave era costituita dalla valle che, accompagnando le ultime propaggini del Limbara, si restringe in una strozzatura all'altezza degli odierni paesi di Monti e Berchidda. Si può ritenere che in questo 232 lo sforzo dei due consoli si sia manifestato in questa direzione. Mentre essi dal Campidano risalivano in direzione di Olbia, le popolazioni sarde si ritirarono nelle regioni montuose con le greggi e le masserizie che riuscivano a portare con se, costrette tuttavia a lasciare nelle mani del nemico un ingente bottino, compiendo solo azioni di disturbo e di guerriglia. Quando, però, i consoli stavano per raggiungere Olbia i Corsi della Gallura fecero irruzione contro questa colonna che si snodava a valle, in un corridoio adatto per l'agguato. L'esercito romano poté raggiungere Olbia solo dopo aver perso il ricco bottino che era stato fatto. Anche nel successivo 231 a.C. i consoli G. Papirio Masone e M. Pomponio Matone ebbero l'incarico di reprimere le azioni dei Corsi e dei Sardi. Anche in questo caso la critica si è divisa circa l'interpretazione dei Corsi del 232, così da non escludere che il teatro di questi scontri fosse ancora una volta l'area tra Monteacuto e Gallura.

I Balari, l'altro bellicoso populus che gravitava verso le propaggini nord orientali del Monteacuto, compaiono nella storia con il 178 a.C. In quell'anno si saldò un'alleanza tra gli stessi Balari e gli Ilienses, localizzati questi ultimi tra Goceano e Marghine, in virtù dell'iscrizione terminale del nuraghe Aidu Entos-Mulargia, relativa agli Ili(ensium) iura in nurac Sessar.

Contro gli Ilienses e i Balari mosse nell'anno successivo, alla testa di due legioni, il console Tiberio Sempronio Gracco, riuscendo a sconfiggerli, uccidendone 12000 e impadronendosi dei castra dei sardi, e votando a Vulcano le armi dei vinti che vennero date alle fiamme. La situazione restò indecisa imponendo a Sempronio la permanenza in Sardegna anche per il successivo 176, sinché nel 175 il generale vincitore poté celebrare a Roma un trionfo [ex Sa]rdinia.

Dai dati di dislocazione degli Ilienses e Balari siamo portati a credere che anche il territorio oschirese dovette essere attraversato dalle truppe indigene dei Balari dirette alle sedi degli Ilienses, benché ci manchino più puntuali indicazioni sui luoghi delle battaglie che opposero la coalizione balaro-iliense ai Romani, benché essi fossero stati delineati in una forma (carta geografica) della Sardinia in una tabula votata a Iuppiter nel tempio di Mater Matuta, in Roma, da parte di Tiberio Sempronio Gracco.

Al termine del II secolo a.C. apprendiamo da Cicerone che i romani tenevano nell'isola degli auxilia, soldati privi della cittadinanza romana, organizzati in cohortes, segno di una minore virulenza del ribellismo dei populi indigeni della Sardinia.

Nel corso del principato di Augusto, nel 6 d.C. l'imperatore, "a causa dei disordini provocati dai briganti", prese in carico la Sardinia, fino ad allora retta da un proconsul come provincia senatoria, e inviò un prolegato dell'ordine equestre sino al termine delle operazioni militari durate dal 6 al 9 d.C.

La Sardegna fu ampiamente romanizzata con la costituzione di coloniae (a Turris Libisonis e a Uselis e, probabilmente a Tharros e Cornus) e di municipia (Carales, Nora, Sulci, forse Olbia e Bosa).

L’isola fu interessata da un‘amplissima rete stradale, distribuita ai quattro versanti della Sardegna e all’interno.

Nelle città si ebbero sontuosi edifici per gli spettacoli (anfiteatri a Karales, Nora, Sulci, Tharros, Forum Traiani e teatri a Nora e forse a Turris Libisonis), terme e acquedotti, templi e abitazioni assai ricche.

Il Cristianesimo penetrò nei centri urbani, in particolare nelle città portuali, dove verifichiamo le comunità cristiane organizzate sin dal IV secolo: Karales ha il suo primpo vescovo noto nel 314, Turris Libisonis, Sulci, Forum Traiani e Cornus almeno nel V secolo, ma probabilmente dallo stesso IV secolo.

Le incursioni dei Vandali assicurarono la Sardegna, insieme alla Corsica e alle Balearti al regno vandalico d’Africa. La riconquista bizantina si attuò nel 534 con le armate di Belisario. Il dominio bizantino sull’isola è l’ultima pagina dell’antichità della Sardegna, prima dell’avvento del medioevo.

La civiltà dei Sardi, stretta dal mare solcato dai navigli islamici a partire dal VII secolo, elaborerà progressivamente un’autonomia sostanziale da Costantinopoli, che si rivelerà a partire dall’XI secolo con la costituzione dei quattro regni giudicali di Cagliari, Logudoro, Arborea, Gallura.

Compiled and written by Jedi Simon