La parabola dei Debiti
In questa parabola, vi parlerò della
preghiera al Padre, per mostrarvi come il senso delle cose, col passare del
tempo, dei costumi, dei regni e degli uomini, muti a piacimento di alcuni, al
punto di sviare coloro i quali si servono di quello strumento per condurli ad
altra sponda. Qui di seguito trascriverò la preghiera, come essa era detta in
Aramaico, chiedendo scusa per l’approssimazione fonetica data da altre lettere,
pronuncia e abitudini delle bocche. Al tempo, era cosi: AWOON. Awoon
- Padre Nostro Dwashmaya - che sei ovunque/nei cieli Nithqadash
- sia santificato Smakh - il tuo nome Tethey - lascia che
venga Malkuthakh - il tuo regno o consiglio Nehweh - lascia
che si compia Seweeyanakh - la tua volontà o desiderio Akana
- così come Dwashmaya - in cielo o nell'universo Ap -
anche Barah - sulla terra Haw-lan - dacci o procura per
noi Lahma - il pane Dsunqanan - per il nostro bisogno
Yaumana - di giorno in giorno Washwok-lan - e perdona a noi
Haubain - le nostre offese Akana – così Dap – come
Hnan – noi Swakan - abbiamo perdonato L'hayawen - coloro
che ci hanno offesi Wla - e non Taalan - lasciarci
entrare L'nisyona - in tentazione Ella – ma Pasan
– liberaci Min-bisha - dal male o da errori Mitol –
perché Ddeelakee - tuo è Malkutha - il regno Whaila
- e il potere Wtishbohta - e la gloria La-alam - per tutti i
secoli Almeen - dei secoli Amen
Al tempo dei Romani, il Do ut Des aveva grande forza, e fra le due versioni dei
Vangeli di Matteo e di Luca, venne scelta quella che parlava di “Debito”. Questa
accezione però allora come oggi, si discostava massimamente dalle concezioni de
tempo in quei luoghi. L’uso che se ne sarebbe fatto allora, era legato piuttosto
all’offesa e al perdono biunivoco degli uni verso gli altri. L’Aramaico, essendo
maggiormente connesso alla lingua radicale, diceva bene. Se si cambia una
parola in un contratto, e se ne mette un’altra al posto suo, tutto cambia. I
concetti decontestualizzati, opportunamente si ritrovano a dire altra cosa nel
tempo. Le derive temporali come le pure e semplici variazioni linguistiche di
grado minore, in rapporto con la lingua radicale, sono sovente presenti, poiché
i vettori linguistici che le muovono da un tempo all’altro, e da una civiltà
alla sua prossima, ne mutano il significato. Qualora si facesse una indagine sul
come e sul perché qualcosa muta, operando più tardi secondo costumanza della
culture contigue, si comprenderebbe quale distorsione è in atto una volta per
tutte, quella del vigente. Il significato dei termini viene stravolto a seconda
degli usi e costumi delle culture, attraverso comportamenti ed usanze locali, a
supporto e legittimazione funzionali al presente.
Il concetto di anno Sabbatico
e di anno Giubilare, sono fondati principalmente su quello del perdono e di
liberazione, come strumenti compassionevoli divini, che offrono all’uomo una
nuova possibilità, momento nel quale le terre si lasciano a riposo e tornano ai
loro proprietari, gli schiavi vengono liberati, i debiti estinti ed i contratti
sciolti. Ove questo non piaccia ai potenti e ai governi che succederanno, e che
dovessero essere maggiormente legati ai beni terreni per aver perso i loro
legami con il cielo e con lo spirito, perso di vista il libero arbitrio per
sostituirlo con l’opzione coatta, essi comanderanno e condizioneranno i popoli
al debito come alla sofferenza e alla scarsità come alla mancanza, che per molti
è sinonimo di morte, qualora non abbiano avuto fortuna in questa vita. Oggi, si
fa festa il settimo giorno, e ciò è buona cosa, ma dei premi più grandi già non
se ne parla più. Al perdono come alla compassione, e all’amore che ci vuole a
superare le offese e a non recarne, dovremmo dedicare maggiore dedizione.
Liberaci dal male, significa abbandonare il conflitto, nella misura in cui il
maligno è sinonimo di “avversario”, “oppositore”, diviso e separato dal cuore.
Allora il pane quotidiano di cui si parla diviene l’amore che perdona che
vivifica il nostro spirito. Nota come il disordine divide e impera. Animato, da
buone intenzioni, fai il gesto, apri le braccia e ama.
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PARABOLA TRATTA DA “IL BAMBINO DI LUCE” JEDI SIMON