Filosofia: I sei dharshana
MIMANSI NYAYA E VAISHESHIKA VEDANTA SANKYA YOGA
Il termine dharshana si potrebbe tradurre come
“sistema filosofico” dalla radice sanscrita drish=vedere.
I sei dharshana tentano, nel periodo classico
dell’India (dal 550 a.c. al 1000 d.c. circa) di riorganizzare ed
interpretare l’immensa mole di informazioni prodotta dal periodo
precedente : il periodo Vedico.
Rappresentano, così come indica l’etimologia della
parola, un punto di vista che ci permette di avvicinarci ad uno degli
aspetti filosofici, devozionali, metafisici e ritualisti emersi in
un’epoca che affonda le sue radici nel mito. Ogni dharshana rappresenta quindi un punto di vista metafisico della filosofia indiana, che scaturisce dalla sapienza vedica .
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(Mimansa
Sutra di Jaimni tra il 300 ed il 200 a.C.) è la “scienza del rito”, nel
senso che, tra le indicazioni così eterogenee riscontrabili nell’eterno
Veda, ricerca delle regole fisse per poter definire le precise modalità
del rituale, dei precetti e dei doveri del bramino. Il metodo di studio del testo vedico ideato dal Mimansa sta ancora alla base dei più diversi tipi della moderna ricerca scientifica.
Il
Nyaya e il Vaisheshika producono un sistema di logica che,
sempre partendo dallo studio dei Veda, attraverso il sillogismo, va ad
organizzare una propria metafisica che comprende una dottrina atomistica,
sue categorie, sostanze e qualità. Veniamo ora ai tre dharshana di maggior interesse per il praticante Yoga: il Vedanta, il Sankya e, per il momento in termini generali, da convalidare successivamente alla luce dei suoi testi, lo stesso Yoga.
Il Vedanta è un sistema che, avendo
come testi fondamentali della propria riflessione le Upanishad, il Brahma
Sutra e la Bhagavad Gita, considera un unico principio cosmico supremo
come causa prima di ogni essere. In
particolare:
1) Si ammette che il processo cosmico sia
prodotto dal giuoco di una pluralità di sostanze distinte ma compenetrate
e dirette da un unico essere divino
2) Tutti gli esseri e tutte le sostanze
sono solo la manifestazione di una divinità che si estrinseca in una
molteplicità
3) Tutta la molteplicità è illusione che
dissimula a mo’ di velo il solo reale assoluto Questi tre punti
rappresentano tre gradazioni del Vedanta che sviluppandosi in più
correnti, metterà di volta in volta l’accento o sulla trascendenza
dell’Assoluto (Brahman) o sulla sua possibile contemporanea immanenza, o
sulla totale illusorietà del mondo. Rimane comunque
fondamentale l’identità del Brahman (l’Assoluto impersonale, la divinità
trascendente) con l’Atman ( il Sé individuale, l’anima), si riscontrano
elementi che saranno sviluppati compiutamente nel Sankya (i tre guna, i
cinque elementi) e si evidenzia una metodologia della liberazione per
molti aspetti analoga allo Yoga (meditazione, distacco dagli stimoli
sensoriali, postura, respirazione, ripetizione mantrica). La liberazione (mukti)
è per il Vedanta la realizzazione dell’illusorietà del dualismo di
immanente e trascendente. La mente,
limitata, mutevole, analitica e separativa ha l’assurda presunzione di
voler valutare ciò che è illimitato, incondizionato, vasto ed assoluto. Finché la mente
sarà usata come unico strumento di conoscenza l’essere umano si perderà
nell’illusoria molteplicità, ricca di deflagranti opposti, proposta
dall’ignoranza (avidya).
Per realizzare la vera conoscenza, la vera saggezza, si deve andare oltre l’apparenza individuata e separata e ritrovare la vera realtà: immergendosi nella coscienza universale si permea tutto ciò che è, in tal modo non tanto si “pensa” la realtà quanto si “diviene” la realtà, advaita, non duale del vero essere (Sat).
Il Sankya che
(come il Vedanta e lo Yoga, inizialmente accettava l’idea di un Ishvara,
ossia di un’entità creatrice al di là di Prakriti e del Purusha) è alla
fine del suo sviluppo un sistema ateo: definendo come Eterno sia il giuoco
di Prakriti che l’esisteza delle anime individuali decade infatti sia
l’esigenza che la logicità di un padre creatore (poiché non è pensabile
una fase “precedente all’eternità” in cui sia potuta avvenire la
creazione).
Il fatto di essere a-teo, ossia senza una divinità creatrice, è una caratteristica propria anche ad altri sistemi dell’India. Non bisogna però confondere questa posizione con il concetto di mero materialismo che spesso in occidente viene usato come sinonimo di ateismo. Al contrario, per quanto è stato detto finora, per il Sankya esistono solo due principi, quello materiale e quello spirituale, e mentre il principio materiale viene tacciato di illusorietà, è proprio quello spirituale a designare la vera Realtà.
Nel dharshana Yoga, nascendo anch’esso dalla cultura vedica, si ritrovano sia gli elementi sviluppati dal Sankya ( i 24 tattva ) che quelli evidenziati dal Vedanta (visione della realtà advaita ). Soprattutto esso si propone come metodo per realizzare la tanto auspicata liberazione: dati i presupposti metafisici di cui sopra, il dharshana yoga procede guidando il sadhaka lungo una via, assolutamente pratica, di realizzazione. La possibilità di fare esperienza del Reale (Sat) dipenderà dallo stato della mente: quanto più essa si dibatte nel desiderio e nell’avversione, tanto più sarà spesso il velo di illusione che preclude l’esperienza dell’Atman. Le modificazioni della mente dovranno essere progressivamente acquietate per attingere ad un mezzo di conoscenza rivoluzionario che non procederà per le consuete vie del mentale, tramite confronto di opposti, giudizio, interpretazione: questa nuova condizione sarà resa possibile dall’acquisizione dello stato di nirvikalpa samadhi. Con dovizia di particolari lo Yoga segue il praticante passo, passo donando continuamente, pur nel complesso panorama filosofico, ragguagli tecnici (offrendo tra l’altro una vasta gamma di possibilità alternative, in base alla costituzione psichica dell’adepto). Tale insegnamento porterà con una necessaria gradualità, dettata dall’esigenza di superare attraverso tappe consecutive le sempre meno consistenti resistenze della mente, all’eliminazione dei “difetti” del pensiero razionale e discorsivo.
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